1972-2021, un cinquantennio di attività. La carriera artistica di Marina Abramović è in mostra presso il nuovo polo culturale bergamasco, ricavato dalla riqualificazione di un complesso industriale, con una antologica che ripercorre cinque decenni di creatività e che inaugura il programma espositivo dello spazio. “between breath and fire” (tra respiro e fuoco) è il titolo del percorso di installazioni, gigantografie fotografiche e video visitabili al gres art 671 (tutto rigorosamente minuscolo), grazie all’impeccabile curatela di Karol Winiarczyk e al contributo della Fondazione Pesenti (Roberto Pesenti è presidente del gres). Se per Gabriele Basilico la città è un corpo che respira, per Abramović corpo e respiro sono un tutt’uno e questa mostra ce ne fornisce ampia dimostrazione grazie a venticinque opere suddivise in quattro capitoli tematici e fortunatamente senza goffe re-performance viste altrove e realizzate con altre persone: l’arte intensissima di Marina Abramović va vissuta o con lei o senza di lei (vedasi la forza concettuale di una delle più importanti performance dell’artista – non inclusa in questa antologia – “The Artist Is Present”). La forza delle grandi fotografie e dei video che ripropongono alcune delle performance più celebri è ulteriormente ingigantita dalle parole che accompagnano la mostra e che ci restituiscono gli impulsi straordinari che sono alla base dell’energia creativa dell’artista serba di origine e statunitense d’adozione.
Si parlava di quattro capitoli tematici: l’elemento che s’illumina a un visitatore scrupoloso è rappresentato dalla mancanza di barriere realmente fisiche tra le diverse sezioni, tanto che alcuni pannelli introduttivi si trovano sull’immaginario confine dell’enorme hangar che è la sala espositiva di gres art 671. “Il respiro” è la prima parte ed è bene evidente il rapporto tra la necessità biologica e l’uso del respiro che fa l’artista per connettere l’interiorità e il mondo. Così ne intuiamo il corpo femminile immerso sotto una coltre di quarzi (Dozing Consciousness, 1997), vediamo l’artista pronunciare all’infinito le parole da liberare per il mondo e trattenute nella sua memoria (Freeing Memory, 1975), la rivediamo nell’atto di liberare la voce con urla continue, a volte quasi disumane, che trasformano la voce stessa in uno strumento sonoro (Freeing the Voice, sempre del 1975), e immaginiamo quanto sia capace di liberare il proprio corpo (effettivamente Freeing Memory e Freeing the Voice sono due atti del trittico performativo che include anche Freeing the Body). Un atto primordiale, l’urlo, si coniuga con una necessità personale, verificare quali sono le parole che l’artista riesce a salvare: non sono semplici esercizi di stile, in quanto è evidente il suo sforzo cerebrale e fisico che si regala al nostro sguardo sino quasi allo sfinimento. Apparentemente, ma non è detto che lo sia, un po’ di quiete le può giungere a Stromboli (performance del 2002), l’isola vulcanica dove Marina Abramović realizza una tappa differente del proprio progetto sul corpo e il respiro: vediamo il volto dell’artista e ne immaginiamo il corpo sdraiato sulla battigia che si fa cullare dal moto ondoso, rievocando le continue eruzioni che sono la cifra di questo luogo.
La performance eoliana è al confine tra due elementi fondamentali della creatività dell’artista belgradese: infatti, spostandosi di poco, l’osservatore si trova nella seconda parte della mostra, “Il corpo”. Un’incredibile capacità di mantenimento del proprio autocontrollo è la cifra della performance con la candela: Artist Portrait with a Candle – C (2013) ci rivela l’artista in bianco e il dito poggiato sulla fiammella completamente annerito. Il corpo è ormai ai limiti della sopportazione biologica del dolore e delle sollecitazioni che esso provoca al sistema nervoso. Questi limiti sono potentemente sollecitati nella serie tematica Lips of Thomas (iniziata nel 1975), che in questa mostra ci rimanda il video dei tagli al ventre, necessari per formare un pentagono, sfidando anche la nostra capacità di mantenere lo sguardo e stimolando una spontanea voglia di intervento. La poderosa osmosi tra arte e artista è al centro della performance del 1975 che mostra Marina Abramović nell’atto di spazzolarsi violentemente la folta chioma (titolo semplice ed efficacissimo, Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful) e ancor di più in Dissolution (1997), nella quale vediamo, anche con zoomate vibranti sull’epidermide, la schiena dell’artista violentemente fustigata da una frusta che ci rimanda al cilicio di francescana memoria. Alla fine della performance, Abramović trema: uno stato superiore e differente è raggiungibile solo attraverso lo scuotimento energico dei propri limiti mentali e fisici. Non violentemente sul piano fisico, ma sicuramente perturbante sul piano mentale, è la riproduzione in miniatura della casa con vista sull’Oceano (in realtà una galleria d’arte newyorchese) che è stata teatro dei dodici giorni di digiuno visibili trasparentemente dall’esterno (particolare non irrilevante: i pioli delle scale di congiunzione tra i tre ambienti sono costituiti da lame di coltello). La performance è del 2002 e la riproduzione statica in mostra (accompagnata da frame video) ha per titolo appunto The House with the Ocean View Model.
Richiamando ancora una volta il concetto già utilizzato prima, il passaggio dalla seconda alla terza sezione della mostra è impercettibile. Come classificare, infatti, la celeberrima Imponderabilia? Tra le opere della serie “Il corpo” oppure tra quelle della serie seguente titolata dal curatore “L’altro”? A parere di chi scrive in entrambe le definizioni, perché Imponderabilia usa sia il corpo (nudo, tanto maschile quanto femminile) che l’inclusione dell’altro (lo spettatore che deve passare tra queste due nudità collocate sulla porta di una galleria bolognese). Siamo nel 1977 e nella performance originaria Abramović e il partner Ulay rendono il pubblico parte essenziale del momento artistico, costretto com’è (senza altri ingressi) a scegliere di rivolgere il proprio corpo vestito al petto dell’una o dell’altro. L’opera è qui esposta sotto forma di stampa fotografica e di video ed effettivamente è interessante notare il senso di estraniamento di chi, tra i fruitori, diventa elemento della creazione artistica. Il massimo di tensione e crudele, semplice genialità, l’artista belgradese lo raggiunge con Rest Energy (1980), una performance, sintetizzata qui a Bergamo con una gigantografia fotografica, in cui affida letteralmente la sua vita nelle mani del suo compagno. La scena performativa raffigura infatti i componenti del duo l’uno di fronte all’altra, con un arco (vero) e una freccia (vera) puntata sul cuore di lei e trattenuta grazie al semplice equilibrio posturale. La performance dura quattro interminabili minuti e oggettivamente è magnifica: sappiamo che lei non ha il controllo della situazione e dipende esclusivamente dal compagno con cui si guarda fissamente negli occhi creando una reale e tragica complicità.
Il video della performance del 2001, Mambo a Marienbad, riporta l’artista all’amata Italia e precisamente negli stanzoni bianchi dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra. Gli spettatori devono danzare con delle scarpe ‘speciali’ che ostacolano la fluidità dei movimenti, mentre poi arriva Abramović che danza con naturalezza sulle note di un mambo che richiama un film di Alain Resnais. Insomnia (1997), tassello di un’opera più ampia, è il video performativo collocato frontalmente perché anche qui c’è l’artista nell’atto di danzare, non più vestita di rosso come nel mambo ma in total black in uno spazio indefinito.
Il nero vestale ci introduce all’ultima sezione della mostra, che ha per titolo e continui richiami “La morte”. Novella e straziata Maria Callas, l’artista ci accoglie sobbarcandosi l’insostenibile leggerezza di uno scheletro, richiamando così una prassi tibetana di contiguità con la morte e persone decedute utile ad acquisire maggiore empatia verso questo stadio naturale e finale dell’esistenza Carrying the Skeleton (I) (2008). Ma il vero fulcro della mostra risiede nell’ultima e molteplice tappa che illustra, attraverso sorprendenti opere scultoree in alabastro e video, la creatività più recente di Marina Abramović la quale, in modo talvolta molto barocco, anche grazie alla partecipazione dell’attore William Dafoe e continui richiami alla tecnica artistica di Bill Viola, ci mostra la performer settantacinquenne alle prese con l’autodistruzione e la morte sulle note di celebri arie cantate da Maria Callas. Seven Deaths (2020-21) è un collage performativo in cui non c’è pubblico: nell’attuale maturità anagrafica, l’artista ha evidentemente inteso fare a meno di uno dei pilastri su cui si è basata storicamente la sua arte. The Tree (1972) è l’ultima opera che ci mostra una serie di fronde sonore che, simulando fronde arboree, emettono canti di volatili. L’installazione, ideata originariamente in pieno potere titoista, con un salto temporale ed epocale si collega a esternazioni recenti di Marina Abramović, sempre più legata anche fisicamente al mondo non umano per un inestinguibile bisogno di armonia interiore e globale.
Info:
Marina Abramović. between breath and fire
14/09/2024 – 16/02/2025
gres art 671
Via San Bernardino, 141 – Bergamo
https://gresart671.org/it
Sono Giovanni Crotti e sono nato nel giugno 1968 a Reggio Calabria per rinascere nel giugno 2014 a Piacenza, città dove vivo. Il mio reddito è garantito dalle consulenze digitali, per poi spenderlo in gran parte nell’arte e nelle lettere: sono stato e sono curatore di contenuti e organizzatore di eventi culturali per artisti, gallerie e spazi istituzionali, oltre che scrittore di recensioni di mostre, creativi di ogni epoca e libri.
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