«Il vero disagio del sistema dell’arte deriva da un complesso d’inferiorità nei confronti della realtà» (Francesco Bonami su Il Foglio del 20 luglio 2022)
Alla galleria Jhaveri Contemporary di Mumbai è in mostra una bella personale di Prabhavathi Meppayil, artista classe 1965 originaria dello stato federale del Karnataka. Fitti tagli di rame ricamano l’intelaiatura regolare di tele bianche; solchi circolari incistano cubi affilati, incasellati entro una struttura alla quale non si potrebbe aggiungere né togliere un dettaglio. L’artista mette in scena il manuale minimo di un universo scrupoloso; poche direttive geometriche, ampi intervalli per poterle meditare. Tra le pareti terse del terzo piano della Davidas Mansion, nel quartiere internazionale di Colaba, gli occhi respirano. Lo sguardo galleggia e prende il largo, sospinto verso la luce inerte della sera, infine si getta dalla finestra e mi conduce a ricordare: fino a pochi minuti fa ero lì. Sotto il cipiglio opaco della gateway of India cercavo affannosamente dell’acqua potabile, dimenandomi per tenere il mio verso contro la corrente irresistibile della folla e controllando di continuo il marsupio dove tengo soldi e documenti. Riavvolgo il nastro dello sguardo e ritorno nella galleria: noto che sono l’unico visitatore. Penso sia la prima volta, da quando sono in India, che non ci sono altri esseri umani nel mio campo visivo. Il brulicare spasmodico della vita è restato fuori dalla soglia della galleria: per qualche metro, l’arte conduce un’esistenza appartata.
Non ci sono compromessi a Varanasi. I Veda dicono si chiamasse Kāśī, ‘la splendente’; i colonialisti inglesi fraintesero, scambiarono la v con la b e ne storpiarono il nome in Benares, barattando i denti per un sordo e inoffensivo rintocco di labbra. La città sorge lungo il fianco occidentale del Gange, dove si susseguono i ghāṭ, lunghe scalinate che parafrasano la sfilacciata ragnatela di vicoli della città in una riva spalancata sull’aurora. Svolgere la passeggiata che costeggia la successione dei ghāṭ è scivolare tra gli squallori e le cime vertiginose dei quali l’India è capace; le pie abluzioni dei pellegrini, gli aquiloni impertinenti dei bimbi come gli orifizi del cielo, le pire crematorie che ardono festose per poi essere sventrate e le ceneri distribuite nel Gange: un lungo capogiro senza vertigini. Le murti, le effigi delle divinità, sono i soli lineamenti stabili di questo paesaggio cangiante: iconiche, come le facce aranciate di Gaṇeśa e Hanuman, o aniconiche, come le piante dei piedi delle divinità impresse nel marmo. La fattura artistica di queste immagini è tutt’altro che raffinata, ed esse spesso si presentano smussate e sformate dal tempo e dal tocco insistente dei fedeli. Sarebbe sciocco celebrarle come forme espressive autonome: esse sono maschere, vivificate dalla testimonianza dei devoti, completamente immerse nel flusso brulicante che le cinge; quando il flusso si asciugherà resteranno fredde e inerti, paghe della propria funzione assolta.
Le sculture in basalto dell’isola di Elephanta sorridono al passaggio elettrico dei turisti e delle scimmie capricciose. I loro sguardi serafici accarezzano il mondo da millequattrocento anni, ma la raffinatezza della fattura resta insuperata. La fronte dritta, la faglia delle ciglia; il taglio del labbro, l’impossibile cedevolezza del mento; come dire i classici, ai quali non si può aggiungere né togliere un dettaglio. A rimirarle, presi in trappola dalla perfezione del canone, è innegabile che quelle membra di pietra si possano credere abitate. Che dietro un viso immobile la divinità respiri, prescriva, si dimeni: è un pensiero che viene naturale. Eppure, nessuno accende incenso per queste murti perfette; nessuno domanda soccorso né indicazioni, nessuno le circonda con le mani come un parente né chiude gli occhi per cercare dentro sé il compendio di quelle immagini. Le scintille intermittenti che ne rischiarano i contorni non sono quelle che accendono il fuoco rituale ma i flash delle fotocamere. Esiste la vita senza un interlocutore? La divinità non va ad abitare dove nessuno più la cerca. La malinconia sopraggiunge alla consapevolezza che – da quest’isola – la divinità abbia distolto lo sguardo da tempo. A Elephanta, adesso, va in scena la Storia e come scrive Giorgio Caproni: «La Storia è testimonianza morta. E vale quanto una fantasia».
Nel tempio di Sankat Mochan, a Varanasi, è vietato scattare fotografie. Tutti gli apparecchi devono essere lasciati fuori dall’entrata, insieme alle scarpe. Il visitatore oltrepassa la soglia augurandosi di trovare rifugio per qualche tempo dal trambusto della strada; entro il luogo sacro non rinviene che un trambusto ancor più sfacciato. Questo è il tempio di Hanuman, il dio del vento con il volto di scimmia che scompiglia le cose del mondo: non è dato silenzio né austerità, ma il brulicare della vita al suo spasimo. Gli osservanti aspettano il proprio turno per dare uno sguardo all’effige del dio, la murti. Al limitare della cella si arriva a denti e spintoni: c’è appena il tempo di uno sguardo alla persona, prima di essere ingoiati di nuovo dalla folla. L’icona in sé non ha veramente niente di peculiare; una lastra semiovale di un arancio acceso nella quale sono incisi due occhi bianchi divertiti. La murti non vale di per sé: è una maschera. Intorno le vortica un apparato di ghirlande, gioielli, offerte monetarie, preghiere strillate e mormorate, vocazioni solitarie e slanci collettivi. La murti è viva. Ricama insieme la divinità e il consorzio umano: un’opera che partecipa del brulicare dell’esistenza, che ne è parte attiva: l’artista e l’arte si sono fatti da parte, ed essa ora cammina da sé.
A Mumbai, poco distante dalla Jhaveri Contemporary, alla Jehangir Art Gallery vanno in scena contemporaneamente sei esibizioni. Non è dato cogliere esattamente i confini che le individuano. Lungo le pareti maestri spirituali si danno il cambio con operai e barcaioli ritratti a pennellate fracassone. Molte opere inscenano le feste che scandiscono l’avvicendarsi trepidante del calendario hindū; dalle une alle altre transitano risciò e sacrosante vacche. Il palazzo entro il quale sono ritagliate le sale espositive è enorme e impolverato, affollato in ogni sua parte. Non è giorno di opening ma la folla cola da ogni lato, abrogando il confine che separa il museo dalla strada. La Jehangir Art Gallery, scopro da un prezzario esposto in bella mostra, di rado rappresenta direttamente gli artisti, piuttosto affitta le sale per personali e collettive. Forse qualcuno lo riterrebbe poco serio: non gli avventori – di ogni risma o appartenenza – che studiano le opere con attenzione e sbraitano commenti che non capisco. Certi, di fronte ai dipinti con soggetti religiosi, si sfiorano la fronte in segno di rispetto; sarà forse abitudine o contezza.
Terminata la visita esco dalla galleria, torno in strada; non c’è poi grande differenza. Fatti pochi passi inciampo in una catasta di bancarelle che vendono acquerelli e disegni di buona fattura. Penso che è solo per caso che i loro autori siano da questa parte, mentre certi altri hanno l’orgoglio della galleria. Il mese prossimo, chi sa, magari si scambieranno di posto. La massima aspirazione dell’Arte, credo di capire, è quella di spogliarsi della propria specie di origine e rientrare fragorosamente nella folla, con il proprio carico di impossibilità. Eternamente di segno opposto ai totalitarismi della Storia, questa persona non grata partecipa del brulicare spasmodico della vita – e parteggia. Così pronuncia la fine del proprio complesso di inferiorità.
Nato nel 1998 a Venezia, dopo avere conseguito la maturità classica si trasferisce a Milano dove frequenta l’indirizzo di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2023 pubblica il suo primo testo saggistico per la collana Calibano di Prospero Editore: “Tradizione e Trasgressione. Note dall’India per un’arte indipendente”. Nel 2024 vince il premio Europa in Versi Giovani, al quale seguirà la pubblicazione nel 2025 della sua silloge “sillabario del terribile incanto” per Quaderni del Bardo Editore. Attualmente frequenta il biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali alla Naba di Milano.
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