Bill Beckley. The Name of the Rose

Bill Beckley (Hamburg, Pennsylvania, 1946) è uno dei principali esponenti della Narrative Art internazionale, a cui si accosta a partire dagli anni ’60 con un approccio concettuale fortemente influenzato da studi semiotici.  I primi lavori, originariamente definiti come Story Art, sono tavole composte da scatti fotografici combinati con testi didascalici, inizialmente scritti a penna e poi a macchina, alternativamente correlati all’immagine o ambiguamente fittizi e svincolati dal soggetto. Mentre l’immagine connota la situazione del racconto, l’arbitrarietà delle parole, oltre a essere indefinitamente evocativa, fa emergere la natura codificata di ogni linguaggio comunicativo formato da segni convenzionali il cui potere di significazione trascende il confine tra verità e menzogna. L’oscillazione e l’integrazione tra linguaggi visivi e verbali, che anche quando non sono esplicitati rimangono i latenti presupposti ideologici di tutta l’operazione artistica, è uno dei tratti distintivi di una poetica coerente che nel corso degli anni ha sperimentato vari gradi di  equilibrio e dialogo tra rigore concettuale e coinvolgimento emotivo.

La mostra The Name of the Rose, attualmente in corso alla galleria Studio G7, è incentrata sull’immagine fotografica  della rosa, archetipo formale e stereotipo visivo che l’artista ha elaborato con esiti differenti in ogni fase della sua ricerca artistica. L’excursus cronologico parte quindi dal trittico Roses Are, Violets Are, Sugar Are (1974) in cui la rosa è rappresentata attraverso il suo stelo, che da spinoso diventa liscio e poi si dissolve in una striscia di granelli di zucchero, sullo sfondo di pannelli monocromatici rossi, blu e gialli. Il titolo richiama le strofe di una nota filastrocca infantile che diventa il sostrato narrativo di una riflessione sulla pittura ispirata alla serie Who’s Afraid of Red, Yellow and Blue dipinta da  Barnett Newman tra il 1966 al 1970. Sul piano verbale il titolo scelto da Beckley prosegue la vertigine citazionistica di Newman, che a sua volta alludeva alla commedia di Edward Albee Who’s Afraid of Virginia Woolf? presentata nel 1962, già rimando della canzone disneyana  Who’s Afraid of the Big Bad Wolf? (1933) in una vertiginosa progressione di riferimenti sempre più orientati verso il nonsense. Allo stesso modo, la presenza iconica dei tre colori primari diventati taboo dopo che Mondrian li rese principi assoluti, è offuscata e stemperata dalla sovrimpressione dei gambi floreali e della linea di zucchero, elementi fenomenici distillati in chiave astratta che cercano una possibile mediazione tra l’imprevedibilità del reale e la razionalità concettuale.

Nel 1977 la rosa ritorna in Elements of Romance, doppia composizione di tre tavole fotografiche il cui accostamento richiama la sagoma di una scultura di Sol LeWitt appartenente all’artista. Anche in questo caso si tratta di un tentativo di far convivere minimalismo e romanticismo (o forse dell’ennesimo pretesto per fotografare una rosa in modo non scontato). L’apparente simmetria modulare dell’opera infatti supporta vari livelli di aporia, che vanno dal cambiamento di collocazione dei tre elementi inquadrati in pannelli identici nelle due opere, alla loro compromissione con un tempo profondamente umano (la candela si spegne, la rosa appassisce e la bottiglia di vino si svuota) e alla loro inevitabile assimilazione al conturbante filone tematico della vanitas.

Il lavoro di Beckley, pur riconoscendo il potere del formalismo minimalista di cui adotta la geometria compositiva, l’attenzione rivolta al processo e il valore dimostrativo e tautologico della sequenza, è costantemente aperto all’irrompere della casualità e alla tentazione della bellezza, come si evince dai lavori più recenti presentati in galleria che costituiscono la serie War of the Roses (2017). In questi scatti, che raffigurano sofisticate rose fatte esplodere per mezzo di scintille artificiali, l’artista riprende l’attitudine documentativa della fotografia che adottava all’inizio della carriera (quando realizzava azioni ambientali effimere fotografate in tempo reale) stravolgendone gli esiti estetici in un’ostentata fascinazione per la sublime insensatezza che anima la sua impresa. Il risultato è un’immagine dall’impronta quasi kitsch che dimostra come l’eloquenza dell’arte riceva nuova vita dal confronto con la dimensione quotidiana dell’esistenza e che proprio quest’aspetto la rende così necessaria per l’essere umano. Per questo il titolo, che evoca la sanguinosa lotta dinastica combattuta in Inghilterra tra il 1455 e il 1485 tra i Lancaster e gli York, è stato naturalmente associato da Beckley agli scatti di questa serie come elemento concettuale di rottura con l’intransigenza minimalista e con il cliché della fotografia di soggetto floreale, ma a una riflessione successiva l’artista si accorge che il lavoro riflette anche la crescente conflittualità che negli ultimi anni caratterizza la società americana, oggi più che mai dilaniata da violente contrapposizioni ideologiche tra partiti, generi ed etnie. Tale analogia suggerisce che, nonostante l’arte sia incapace di offrire una soluzione morale efficace ai problemi concreti in cui si dibatte l’uomo, la sua presenza ha la funzione reale di  rispecchiarne in modo emblematico le contraddizioni, suggerendo possibili vie d’uscita da sistemi di pensiero coercitivi e riduttivi.

Info:

Bill Beckley. The Name of the Rose
17 febbraio – 28 aprile 2018
Studio G7
Via Val D’Aposa 4A Bologna

Bill Beckley, Roses Are, Violets Are, Sugar Are, Cibachrome photographs, 1974, 95 x 228 cm / 37.5 x 90 inches Edition of 3

Bill Beckley, Elements of Romance, 1977, Fuji Crystal Archive paper, cm 256.54×127

Bill Beckley, War of the Roses 98, 2017, Fuji Crystal Archive paper, cm 182.88×121.92

Bill Beckley, War of the Roses 29, 2017, Fuji Crystal Archive paper, cm 182.88×121.92


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