Case history: Lucas Samaras

Lo studio per un artista è il luogo fondamentale, l’antro da cui ha origine la sua creazione, il ventre materno a cui ritorna e da cui rinasce. Studi alti, bassi, vecchi o nuovi, condivisi o solitari. Lo studio è lo specchio dell’artista, un luogo che può raccontarci qualcosa in più della sua opera.

Per Daniel Buren è nello studio che andrebbero visti i lavori degli artisti, e non in un museo o in una galleria, che, non essendo pensati per ospitare un’opera d’arte in particolare, neutralizzano e snaturano le opere. Solo all’interno dello studio è concesso all’artista di essere sé stesso e allo sporco di prevalere sul pulito, al caos di dare forma alla materia.

Tra gli artisti contemporanei, Lucas Samaras è stato il primo a esporre in pubblico il suo studio trasferendolo per intero dal New Jersey per ricostruirlo così com’era all’interno della Green Gallery di New York. L’opera, intitolata Room #1, è del 1964 e mette in mostra, come congelato, il luogo che è stato per 14 anni la sua camera da letto e il suo studio. In questa piccola stanza da 6 x 13 piedi (meno di 2 metri x 4) si trovano dipinti, sculture, oggetti personali, il letto, i vestiti, i libri, gli schizzi e le riflessioni personali. L’opera si configura, per Samaras, come una sorta di enorme scultura, un collage autobiografico che contiene l’essenza dell’artista, il suo presente e il suo passato. In vendita a 17.000 dollari, Room #1 è rimasta invenduta, ma ha segnato un momento decisivo nella storia dell’arte.

Il gesto di Samaras si inserisce appieno nella riflessione sullo spazio avviata alla fine degli anni Cinquanta, inizio Sessanta. Nel giro di pochi anni si è passati dalla creazione di un “unicum invisibile”, come Yves Klein definisce la performance/evento Le vide portato alla Galerie Iris Clert di Parigi nel 1958, a Le plein di Arman, esposto nel 1960 nella stessa galleria. Di qualche anno successivo sono le installazioni di Dan Flavin, Andy Warhol e Carl Andre che portano avanti le conseguenze delle riflessioni sullo spazio espositivo nate con Duchamp nel 1938 con 1200 sacchi di carbone e Sixteen Miles of Strings del 1942.

Altri precedenti del gesto di Samaras: i Merzbau, gli studi abitati di Schwitters, il primo dei quali ultimato, o meglio abbandonato, nel 1937, e Bed di Rauschenberg, il combine painting del 1955 esposto in verticale su un muro della Charles Egan Gallery di New York.

Nell’esposizione dello studio di Samaras la riflessione sullo spazio avviata in quegli anni si concentra su un luogo particolare, quello abitato dall’artista, che viene fatto qui coincidere con lo spazio espositivo. Samaras dichiarerà di aver compiuto con Room #1 il gesto più personale che un artista possa compiere, che mette in mostra nel modo più completo la totalità dell’artista. Nella stanza/studio di Samaras è possibile infatti trovare tutto quello che ha dato forma all’artista insieme a quello che egli vive quotidianamente. Un ritratto dell’artista senza l’artista, una traccia del suo passaggio, del suo modo di modificare le cose e gli ambienti. Un ritratto della sua presenza in sua assenza, la presentazione in luogo pubblico di elementi privati. La camera in disordine di Samaras rifiuta di considerare privato qualsiasi oggetto in essa contenuto, in primo luogo il letto, a cui faranno seguito altri letti, da quello sfatto di Felix Gonzales-Torres a quello devastato di Tracy Emin, fino ai divani su cui ozia Franz West.

Proprio in quegli stessi anni, tra il 1967 e il 1968, Lowell Nesbitt visitava gli studi dei suoi amici artisti, tra i quali Claes Oldenburg e Louise Nevelson, per rappresentarli in foto e successivamente su tela, convinto che gli atelier fossero “ritratti degli artisti in cui non c’erano né volti né corpi”. Spazi che si aprono all’interno, molto personali, a cui normalmente non si può avere accesso. Curiosamente, proprio il fatto di raffigurare un luogo troppo personale, lontano dalla rappresentazione storico-allegorica della pittura allora in voga, ha causato a Courbet l’esclusione dall’Esposizione Universale di Parigi del 1855 del dipinto che rappresenta il suo atelier, esclusione che ha dato origine, com’è noto, all’apertura da parte del pittore del Padiglione del Realismo. E anche il gesto di Samaras ha a che fare con la realtà, presentata senza abbellimenti e portata in campo direttamente come un grande object trouvé, insieme alla negazione dello spazio pulito e neutro della galleria come white cube.

Nel lavoro di Samaras si assiste a una fusione tra arte e vita e a una sua rappresentazione senza veli. Quasi tutto il suo percorso artistico è introspettivo, autobiografico e autoreferenziale: dai primi autoritratti dipinti, alle polaroid, alle Photo-Transformation degli anni Settanta, la presenza dell’artista è il motivo centrale dell’opera, che ci fa entrare nel suo studio-camera da letto tanto quanto nella sua piccola cucina dal pavimento a scacchi, e che fa di Room #1 un autoritratto di Samaras di quegli anni.

Erika Lacava

Lucas Samaras, Room #1, 1964 © 2020 Lucas Samaras

Lucas Samaras, Auto Polaroid, 1969-71, Twelve black and white instant prints (Polapan), 24.1 × 62.9 cm, MOMA, Gift of Robert and Gayle Greenhill © 2020 Lucas Samaras

Lucas Samaras, Untitled, Sept. 6, 1978, Color instant print (Polaroid Polacolor) 24.2 × 19 cm, MOMA, Gift of Robert and Gayle Greenhill © 2020 Lucas Samaras


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