È un’ora imprecisata del giorno o della notte e il travestito Divine passeggia avanti e indietro sul marciapiede di una strada di periferia, raccontando la sua storia in un soliloquio tenero e ironico. Sulle spalle indossa paio di ali sgargianti, come se dovessero aiutarlo a mantenersi in equilibrio sui tacchi alti, ma anche a favorire la sua conversazione empatica con Gesù, confidente privilegiato e ispiratore della sua missione di dare amore a qualunque passante bisognoso. Al sottofondo di una sonata corale di Bach il protagonista piange, si commuove ed esulta di una gioia timida ma rapace rievocando alcuni degli episodi più insoliti con i suoi amanti occasionali, quasi santificandone la prosaicità attraverso una narrazione immaginifica e trasfigurante.

“Cinema Cielo” di Danio Manfredini, ph Daniele Ronchi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
Questo è l’incipit di “Cinema Cielo”, spettacolo che debuttò nell’estate del 2003 al Teatro degli Atti di Rimini in occasione del Festival Santarcangelo dei Teatri, con ideazione e regia di Danio Manfredini, e che l’anno successivo venne insignito del Premio Ubu per la miglior regia. La pièce, ambientata in una Milano suburbana degli anni Quaranta, si ispira a “Notre-Dame-des-Fleurs” (1942), romanzo d’esordio che Jean Genet scrisse in carcere per raccontare le vicende di una comunità parigina di omosessuali ai margini della società che vivono di espedienti, in un intersecarsi di rapporti erotici e di violenza. In scena Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete, Danio Manfredini e Giuseppe Semeraro a dare vita a un variopinto campionario di deviazioni da periferia osservate amorevolmente nei loro aspetti più cinici e crudeli. Lo spettacolo, già considerato una pietra miliare del teatro contemporaneo, è stato rappresentato con continuità negli anni che hanno fatto seguito al suo esordio per poi stare lontano dalle scene più di quindici anni. Molti altri lavori e progetti hanno nel frattempo attraversato le vite e le carriere dei quattro interpreti, che si ritrovano ora impegnati in un nuovo tour (dopo le tappe di Bari e di Bologna all’Arena del Sole, alla quale abbiamo assistito, ci saranno quelle di Sarzana e Milano) che ne dimostra la tenuta e la vitalità anche a distanza di così tanto tempo.

“Cinema Cielo” di Danio Manfredini, ph Daniele Ronchi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
A differenza dell’opera letteraria di Genet, che pone l’accento sul vitalismo erotico e sull’affilarsi di una crudeltà magnificata consustanziale ai sui personaggi, nell’opera di Manfredini essi appaiono come invischiati in sé stessi, per sempre intrappolati in un sottobosco di debolezze, solitudini e istinti basilari. Il punto di vista dello spettacolo, come anticipato dal monologo iniziale, è quello allucinato di Divine, che conduce lo spettatore all’interno del cinema a luci rosse da cui è tratto il titolo (evocativo di una reale sala cinematografica milanese ora chiusa) a conoscere le storie e i pensieri della variegata popolazione di disadattati che lì trascorrono le proprie giornate. Appena il fondale urbano si dissolve, siamo di fronte a un imbarazzante sdoppiamento, quello di trovarci nella posizione dello schermo di una sala da proiezioni con le sue logore poltroncine rivolte verso di noi a guardarci.

“Cinema Cielo” di Danio Manfredini, ph Daniele Ronchi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
Per un attimo sorge il presentimento di poter essere direttamente chiamati in causa, ma è solo un istante, subito tacitato dalla consapevolezza che (per il momento) i personaggi sul palcoscenico non si accorgono della nostra presenza perché non stanno guardando il film, ma sono totalmente immersi nelle loro vicende stralunate e nelle loro conversazioni interiori. Assieme ai quattro attori, che alternandosi in scena fanno vivere una polifonica moltitudine di caratteri accomunati dalla pulsione a soddisfare i loro bisogni primari, altrettanti manichini, seduti sulle poltroncine, partecipano dell’azione scenica come spalle innescando con loro duetti o scene di gruppo. E ancora, altri manichini spuntano ogni tanto movimentati dagli attori dalle porte laterali degli immaginari ambienti di servizio che circondano, come in ogni cinema, la sala principale in cui viene proiettato il film.

“Cinema Cielo” di Danio Manfredini, ph Daniele Ronchi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
È sempre volutamente ambiguo chi stia facendo o dicendo quello che si vede e si sente, perché i dialoghi che gli attori intrattengono dal vivo con sé stessi o con gli altri personaggi si intersecano con altre voci provenienti da fuori campo che concorrono a esprimere le istanze di chi è in scena e di chi potrebbe esserci. E al contempo, a tratti i manichini immobili sembrano fissarci minando la nostra percezione di spettatori a distanza di sicurezza, mentre gli attori alternano registri di movimento che attraversano il teatro popolaresco, quello di burattini, la coreografia orgiastica, il balletto meccanico, passando dall’instabile arrancare dell’ubriaco al balzo elastico del felino. La banda sonora parallela a appena menzionata, a tratti sovrascritta dalla musica, deriva dalla registrazione originale della prima rappresentazione a Sant’Arcangelo che, come racconta Manfredini in un’audio-conversazione[1] con Michele Pascarella per Gagarin Magazine, è stata «asciugata comprimendo alcune scene e togliendone altre» per adattarla al mutato sentire degli interpreti, ora reso più disincantato da una sorta di dimestichezza con la materia che diventata più quotidiana, necessita di un tempo più breve.

“Cinema Cielo” di Danio Manfredini, ph Daniele Ronchi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
E quindi un altro rispecchiamento-sdoppiamento, questa volta non di ruolo e di posizione ma cronologico, con gli attori che quasi discutono con voci rese un po’ più profonde dall’esperienza con il loro sé passato rimasto cristallizzato nella dimensione sottile del suono. Ciò che rimane ferma, nel naturale evolversi della composizione corale, è l’attitudine di Manfredini a erigere in poesia una dimensione bassa e sotto-ordinaria, emancipandola dalla pochezza di cui sembrerebbe insanabilmente gravata. Non quindi l’apologia del vizio come rovesciamento dei valori sociali acquisiti, alla maniera di Genet, ma un atto di misericordia compartecipata che si compie quando il pubblico armonizza il proprio sentire (e avviene davvero) con quello di Divine, Minion, Gorgui e gli altri strampalati frequentatori del cinema. Ed è tutto più leggero, anche l’indolenzimento emotivo che persiste dopo lo spegnersi dei riflettori.
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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