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Débora Delmar. Stressed, Blessed and Coffee Obsess...

Débora Delmar. Stressed, Blessed and Coffee Obsessed

Débora Delmar (1986, Mexico City) utilizza l’iconografia degli stereotipi commerciali per affrontare il tema della mobilità di classe e della sua autorappresentazione. Il suo lavoro è incentrato sull’esplorazione della cultura del consumo globale del 21esimo secolo e prende spesso a paradigma il cibo inteso come oggetto di lusso per analizzare le strutture di marketing ed economiche attraverso le quali le abitudini (indotte) dei consumatori rafforzano la loro coscienza sociale. Nella mostra Stressed, Blessed and Coffee Obsessed a GALLLERIAPIÙ l’artista esamina l’influenza della cultura occidentale dei caffè nello sviluppo delle città, nelle relazioni sociali e nello stile di vita contemporaneo attraverso un allestimento ambientale che trasforma la galleria in uno spazio ibrido tra la trappola e il nonluogo. Le catene di caffè in franchising, prodotti emblematici della surmodernità, nei Paesi più economicamente sviluppati hanno rimpiazzato la funzione aggregativa dei Café storici, un tempo luoghi d’incontro frequentati da artisti e intellettuali. Sono ambienti dal design accurato e omologante dove nulla è lasciato al caso: il numero di decibel, dei lux, l’organizzazione dei percorsi, la distribuzione degli spazi, le comodità tecnologiche (wi-fi, porte, illuminazione e acqua automatiche) e la tipologia delle informazioni sono calcolate con precisione affinché l’individuo al loro interno anestetizzi le sue caratteristiche personali per continuare ad esistere solo ed esclusivamente come cliente. Il suo unico ruolo è quello del fruitore, soggetto a poche e semplici regole, come attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, consumare il prodotto e pagare. Nonostante questa omogeneizzazione, i caffè in franchising solitamente non sono vissuti con noia ma assumono nell’immaginario dell’utente medio il carattere positivo di status symbol, di emblema della cultura hipster o del successo professionale. A questo modo il “cultural cleaning” delle corporazioni coinvolte nel business globalizzato trapassa dall’estetica dei luoghi – pulita, facilmente decodificabile e fintamente lussuosa – al comportamento dei loro frequentatori abituali, che diventano più o meno consapevolmente testimonial del prodotto che stanno utilizzando e del suo appeal mediatico.

Per riflettere sui retroscena semantici di questi sistemi Débora Delmar ricrea in galleria un surreale caffè esploso in cui ogni componente, inquietantemente low profile e simile al vero, appare subdolamente modificato e scollegato dagli altri in modo da inficiare la sua funzione prestabilita senza alterarne la riconoscibilità. Avvalendosi di un sistematico processo di appropriazione e disseminazione, l’artista preleva alcuni elementi iconici (immagini, oggetti, suoni) dei caffè in franchising e li dispone in modo da scardinare il contesto semantico in cui sono normalmente inseriti. Il suo obiettivo è mettere in atto un intelligente depistaggio che funziona come una terapia omeopatica in cui il rimedio appropriato per una determinata malattia è la sostanza che, in una persona sana, induce sintomi simili a quelli osservati nel paziente. Immersi ma allertati, ci avventuriamo allora nell’ambientazione dell’artista messicana con la medesima distanza critica che lei stessa frappone tra l’osservatore e l’oggetto della sua ricerca.

Anzitutto il sound: appena entrati in galleria percepiamo un soffuso tappeto sonoro che riproduce registrazioni ambientali effettuate da Débora in alcuni caffè di Londra, Beijing, Città del Messico e Indianapolis. Nessuna connotazione particolare ci aiuta a capire in quale città ci troviamo, segno che in qualsiasi parte del mondo i suoni rilevabili in questi luoghi sono gli stessi. Anche cercando su you tube troveremo un’ampia scelta di backgound noise di coffee shop che molti utenti utilizzano a casa per concentrarsi mentre lavorano e forse il loro isolamento non è molto differente da quello dei reali avventori, spesso immersi negli schermi dei loro smartphone e dei loro computer portatili.

Poi le immagini: al di sopra di una sobria boiserie in legno vediamo una galleria di foto che l’artista ha scattato con l’I-Phone riprendendo l’interno di vari caffè attraverso le vetrine che li separano dalla strada o cogliendone il riflesso in altre superfici specchianti urbane. Le immagini, inquadrate in una morigerata cornice che ricorda lo stile d’arredamento di questi luoghi, mostrano particolari dal taglio quasi pubblicitario o persone intente alle loro quasi sempre solitarie occupazioni ai tavolini di fronte all’immancabile tazza di caffè americano. Tutto richiama il concetto di schermo, inteso nel suo senso più intimo di diaframma tra noi e gli altri: i riflessi del vetro che offuscano leggermente la scena, le finestre, i dispositivi elettronici utilizzati dalle persone e lo stesso strumento usato dall’artista per catturare le situazioni che vede. L’era mediatica e globalizzata ha profondamente cambiato anche le strategie di socializzazione delle persone, ora più avvezze a relazioni fredde, mediate da tecnologie e codici di comportamento standard, che nel loro insieme costituiscono un’ulteriore forma di schermo.

L’intrigante gioco con il fake di Débora Delmar prosegue nei due dispenser di salviette da bagno pomposamente marmorizzate, una coppia celibe che finge un lusso di facciata come gli arredi di Starbucks, progettati in modo da far percepire cool ciò che è cheap per aumentare il valore sociale dell’essere in quel luogo. E proprio nella diversa assimilazione di questi aspetti si esprime il contrasto di classe tra chi ha già raggiunto il benessere economico e chi sta faticosamente lottando per ottenerlo. Considerando il prezzo del caffè come indicatore di costo della vita e il fatto che le catene in franchising propongano prezzi più o meno simili in ogni Paese, possiamo immaginare ad esempio come in certi luoghi una tazza di caffè possa costare come un pasto economico. E che quindi usufruire di questi prodotti perché abilmente allettati dall’appeal che emanano sia indice di una relazione perversa con una cultura invasiva e snaturante che riesce a vendere come elitaria la propria produzione di massa.

Addentrandosi nella seconda stanza della galleria, l’occhio è immediatamente catturato da una serie di specchi, collocati in posizioni strategiche per riflettere finestre e dettagli ambientali, sui quali sono applicate piccole stampe di screenshot tratti da Instagram in cui persone di differenti nazionalità si ritraggono con una tazza di caffè in mano. Giovani, belli e sexy, questi personaggi afferenti a diversi stereotipi estetici e mediatici fingono spontaneità per proporsi come modelli di lifestyle, accompagnando i loro selfie con didascalie che suggeriscono vite di successo in cui il caffè è un elemento essenziale per far fronte ai numerosi appuntamenti lavorativi e sociali che si contendono il loro tempo. In queste autorappresentazioni ideali prodotte per i follower (reali o immaginari) il confine tra realtà e mistificazione è sempre più labile, come ci ricorda lo specchio che riflette il nostro volto mentre guardiamo noi stessi all’interno dell’opera. Lo specchio inoltre, facile espediente per amplificare visivamente le dimensioni di un ambiente, è anche uno strumento di condizionamento comportamentale perché la consapevolezza della sua presenza ci fa concentrare sull’apparire e sulla possibilità di essere visti a nostra insaputa da angoli di riflessione che sfuggono al nostro controllo.

Al centro della sala troviamo un altro ossimoro: una lampada di design prodotta dall’artista in cui un neon circolare disegna nell’aria la scritta Coffee Coffee Coffeeeeeeeeee, un urlo disperato in dialogo ambiguo con Exclusive Providers, scultura composta da tre sedie in finto marmo accatastate l’una sull’altra, inequivocabile segnale di chiusura del locale e della temporanea indisponibilità dell’agognato caffè. L’interruzione del servizio pone l’accento sulla fittizia ospitalità di questi luoghi che offrono all’avventore un’illusione di comfort per somministrare prodotti in orari (e a prezzi) prestabiliti. L’ultima installazione, Infinite Scroll è formata da una serie potenzialmente infinita di contenitori per il caffè d’asporto, che nelle grandi capitali sono ormai diventati un dettaglio ricorrente dell’ambiente urbano, costellato da effimeri accumuli di plastica monouso. L’invasiva presenza di queste schiere di rifiuti richiama la serialità della catena produttiva, mentre il titolo, che riprende il nome di un applicativo per social network utilizzato per visualizzare sempre nuovi contenuti, allude all’assuefazione e alla dipendenza, soprattutto psicologica, di chi non ha nemmeno il tempo di sedersi per consumare la propria bevanda. Anche il titolo della mostra, che sottolinea in più punti come le abitudini on line e gli stimoli pubblicitari condizionino i nostri reali comportamenti, è materiale d’appropriazione e deriva da un post su Instagram in cui lo stress viene visto come mantra e come positivo indicatore di adattamento alla frenesia della non-stop society.

Info:

Débora Delmar. Stressed, Blessed and Coffee Obsessed
31 gennaio – 30 marzo 2019
GALLLERIAPIÙ
Via del Porto 48 a/b
Bologna

Debora DelmarDébora Delmar, Stressed Blessed and coffee obsessed, exhibition view at GALLLERIAPIÙ

Debora DelmarDébora Delmar, Total Living, 2019

Débora Delmar, Exclusive Provider 1 2, (MarbleDispenser), 2017,detail

Débora Delmar, Daily Mirror (Instagram Archive), 2019, second room, detail

Débora Delmar, Coffee Coffee Coffeeeeeeeeee and Infinite Scroll, 2019

Débora Delmar, Stressed Blessed and coffee obsessed, exhibition view at GALLLERIAPIÙ

For all images: ph credits Stefano Maniero, courtesy GALLLERIAPIU and Débora Delmar


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