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Fondazione Prada: l’importanza di chiamarsi K

Fondazione Prada: l’importanza di chiamarsi K

Che Franz Kafka non avesse prospettato un lieto fine per il suo romanzo incompiuto, America, lo si può immaginare perché, si è detto, fu sempre animato da una carica utopica negativa e radicale. Sappiamo certamente, però, che Kafka condivise la critica neoromantica della civiltà capitalistica sviluppata dal circolo sionista Bar-Kochba: il lettore, già in questo romanzo giovanile, viene consegnato alle atmosfere ostili di un lavoro meccanicizzato, dove gli impiegati si definiscono unicamente per la loro informe uniformità e l’atmosfera angosciante scandisce un tempo puramente funzionale.

Nonostante l’ultimo capitolo sul Teatro di Oklahoma sembri prospettare una soluzione felice, si deve tener conto che le intenzioni di Kafka, per il romanzo America, dovettero essere altre: in una nota del Diario del 1915, scrive che “Rossmann e K., l’innocente e il colpevole” furono infine “uccisi tutti e due, per castigo, senza distinzione, l’innocente con mano più leggera, piuttosto spinto da parte che ammazzato” (Kafka, 1983). Alfred Wirkner, inoltre, ha interpretato il nome affibbiato a Karl Rossmann al momento dell’iscrizione al Teatro – nella sua lettura una macchina micidiale per sfruttare l’ingenuità degli emigrati – cioè “Negro”, come corrispondente all’immagine del libro di Holitscher dove si vede un uomo sul punto di essere linciato, il cui sottotitolo riprende proprio il termine Oklahoma.

K. è anche il titolo della mostra dedicata a Kafka visitabile alla Fondazione Prada fino al 25 ottobre 2020. Qui vengono proposte tre interpretazioni – media diversi – dei romanzi America, Il castello e Il processo, i cui protagonisti sono accomunati non solo dalla presenza nel proprio nome della lettera K. (Karl Rossmann, Joseph K. e K.) ma anche dal motivo della rivolta contro i funzionari della giustizia ufficiale. Se Orson Welles si occupa di The Trial e la band musicale francese Tangerine Dream di The Castle, è l’artista tedesco Martin Kippenberger che si cimenta con il romanzo giovanile, tramite una installazione dal titolo paradossale: The Happy Ending of Franz Kafka’s Amerika.

Kippenberger fu effettivamente un artista dall’ironia dissacrante e cupa, infatti in questo caso ci propone una giostra colorata di apparati burocratici che ingrigisce nelle catastrofi comuni cui sono sottoposti i lavoratori dei romanzi di Kafka. Ma è una qualificazione anarchica che avvicina l’installazione di Kippenberger ad America. Sappiamo della vocazione scandalistica dell’artista tedesco, ma cosa, invece, dell’anarchismo kafkiano? Una critica all’autorità gerarchizzata e una critica alla crudeltà della burocrazia sembrano evidenti. E tuttavia a questo corrisponde anche un atteggiamento dei personaggi che, a ben vedere, è stato definito come “sornionamente aggressivo, aggressivo senza calcolo […] Egli (il personaggio) si comporta come il più spudorato libertino nel bel mezzo della locanda – la locanda dei funzionari-” (Bataille, 2007).

Nell’installazione una sovrabbondanza di oggetti vuole ricreare l’atmosfera dei colloqui collettivi descritti da Kafka nel romanzo. Everybody’s welcome, così si dice nel romanzo. In effetti lo spettatore potrebbe immaginare sé stesso nella situazione di un colloquio collettivo: le sedie vuote, un misto tra promessa futura ovvero di inganno mortifero, sembrano chiamare chi guarda. Eppure, a dispetto di tutte le interpretazioni possibili, non possiamo fare a meno di pensare che Karl Rossmann sia già morto.

Info:

K.
a cura di Udo Kittelmann
21 febbraio – 25 ottobre 2020
Fondazione Prada, Milano

Per tutte le foto: Vedute della mostra K. alla Fondazione Prada. Courtesy of Fondazione Prada. Ph: Andrea Rossetti


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