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Francis Alÿs a Losanna, al MCBA

Francis Alÿs a Losanna, al MCBA

Francis Alÿs (nato ad Anversa nel 1959, dal 1986 vive e a Città del Messico) nel corso della sua proficua carriera artistica ha realizzato una serie di opere davvero significative e che toccano temi e problematiche dei nostri tempi. Nel suo lavoro è uso mischiare i linguaggi (sebbene con flessioni innovative) della performance, della video arte, della pratica relazionale e sociale, della pittura. Alla base della sua poetica riscontriamo delle pulsioni di denuncia politica, pulsioni che si innestano su una chiara visione di intimità poetica, eppure, se vogliamo pensare ad alcuni segni ricorrenti nel suo linguaggio, possiamo così riassumere: la centralità dell’uomo e il contesto nel quale vive. Tuttavia, la prima cosa che viene in mente riferendoci a Francis Alÿs è che questo artista ha attraversato i continenti per misurarsi con realtà molto distanti l’una dall’altra senza mai porsi il quesito: che cosa ci faccio io qui? Le domande che si è posto sono invece ben altre, tipo: quale deve essere il modello di vita di un un essere umano? quali sono le contraddizioni tra modernità e modernizzazione? qualsiasi tradizione va abbandonata per strada? il modello di sviluppo economico deve essere per davvero unico? c’è sempre il bisogno di dominare su altre persone? i fantasmi del nostro passato sono qualcosa di inquietante e che ci pongono dei freni nelle relazioni con gli altri? ci può essere una morale nelle nostre azioni quotidiane? Inoltre, di fronte a questa sua opera immersiva e coinvolgente, possiamo enunciare queste tre parole che è possibile far risuonare come degli slogan: siamo “stupiti” (Aristotele), siamo “trafitti” (Thomas Mann), siamo “salvati” (Fëdor Dostoevskij), nel senso che le sue immagini ci sorprendono, ci ancorano al problema e ci indicano una possibile via di fuga.

Attraverso i suoi vagabondaggi, apparentemente innocui e del tutto casuali, Francis Alÿs non pensa solo alla città o ai paesi che attraversa, ma vi plasma storie, fa circolare voci, mappa il tessuto sociale attraverso azioni a volte brevi, a volte estese e articolate, talvolta usando un accessorio che funge da catalizzatore per raccontare favole dove un corpo si fa protagonista e interprete dello spazio. Nella maggior parte dei suoi primi filmati, l’artista assume il ruolo di chi offre questa spinta propulsiva (come nell’incredibile “The Collector” del 1990-1992, girato a Città del Mexico e nell’ancora più onirico “Zapatos magnéticos” del 1994 e girato a Cuba); in seguito, a partire dal 1999, si sposta dietro la macchina da presa, come nei Children’s Games, un ciclo ancora in essere e che vede una raccolta di immagini davvero curiose e che riportano in superficie ricordi di un passato ancora presente nella nostra memoria (si vedano per esempio i video “Game #1: Caracoles” 1999;  “Game #5: Revolver”  2009; “Game #7: Stick and Wheels” 2010; “Game #12: Musical Chairs” 2012; “Gale #17: Chunggi” 2017). In particolare, questi video, realizzati in vari paesi (ma comunque in situazioni di indigenza e fuori dal controllo degli adulti, visto che si parla di giochi di strada), propongono una congiunzione tra i mondi immaginari dell’infanzia e gli spazi immaginari dell’artista.

Nello specifico Reel-Unreel [2011, 19.32 min, video realizzato a Kabul in collaborazione con Julien Devaux e Ajmal Maiwandi, commissionato da dOCUMENTA(13), prodotto con il supporto di David Zwirner Gallery, e presentato al MCBA di Losanna assieme a dipinti e opere su carta], sebbene non appartenga al ciclo progettuale dei “giochi” in qualche modo ne è ricollegabile, visto che trae spunto dal classico gioco di una “ruota” che deve essere fatta correre, senza farla cadere. In realtà, nel filmato qui indicato, per la maggior parte delle riprese l’attenzione si incentra su due bobine che una coppia di bambini deve far correre, srotolando e riavvolgendo la pellicola  (la bobina rossa svolge la pellicola mentre quella azzurra deve riavvolgerla). Ovviamente i fondali scenici (i dettagli delle case e delle strade martoriate dal conflitto, i greggi di pecore che attraversano la città, l’immondizia sparsa un po’ ovunque, gli elicotteri che sorvolano la città, i vestiti dei bambini, i rumori di sottofondo, il flusso continuo di un traffico veicolare e pedonale) divengono parte di una più ampia presa di contatto con la realtà. Il gioco diviene, allora, pretesto e finzione e filtro di un  discorso allargato, diciamo pure, proiettato sul piano della denuncia, visto che nei titoli di coda si può leggere questo testo: “On the 5th of September 2001, the Taliban confiscated thousands of reels of film from the Afghan Film Archive and burned them on the outskirts of Kabul. People say the fire lasted 15 days. But the Taliban didn’t know they were mostly given film print copies, which can be replaced, and not the original negatives, which cannot”. Certo, il triste epilogo oscurantista, con il ritiro delle forze occidentali dal paese e il ritorno al potere dei Talebani, è purtroppo noto a tutti: ecco perché questo filmato rimane un documento davvero eccezionale e significativo e andrebbe divulgato  ai quattro angoli del pianeta, e lo si dovrebbe discutere come si usava fare nei cineforum e nei cineclub degli anni Settanta. In particolare il filmato fa molto pensare anche per la qualità dei dettagli e dei piani ravvicinati, tanto che sorge spontaneo sottolineare l’abilità dell’autore a pianificare a tavolino un filmato poi realizzato con modalità neorealista, e cioè con “attori” presi dalla strada. Ma non solo, va notata pure la capacità di cogliere delle pause che si inseriscono nel percorso delle immagini; ecco perché una evidente lentezza esecutiva e una finta ingenuità hanno aiutato a far collimare tutti i tasselli della narrazione. Quello che in effetti appare incredibile è come Alÿs sia riuscito, con grande disinvoltura, a scivolare tra le persone e a seguire il flusso della vita (o della bobina da intendersi come simbolo del filo della vita) per costruire un intreccio narrativo di grande efficacia e in un contesto segnato da contrasti forti e drammatici, difficili e pericolosi. Reel-Unreel è tutto questo ed è un esempio pertinente di un’esperienza di grandissimo livello qualitativo.

Il lavoro di Francis Alÿs è rappresentato da gallerie di ottima levatura (come David Zwirner di New York, Peter Kilchmann di Zurich, Jan Mot di Bruxelles), mentre la mostra As Long as I’m Walking per il Museo di Losanna, che ci offre una perfetta panoramica del suo lavoro di questi ultimi trent’anni, è firmata da Nicole Schweizer. E proprio questa mostra ci permette di pensare che al mondo ci sia ancora una qualche possibilità per esporre un pensiero non omologato, perché sebbene di norma il denaro condiziona il nostro cervello di consumatori, ogni tanto qualche inciampo imprevedibile è cosa da non passare sotto silenzio, soprattutto quando argomenti difficili e pure non accattivanti riescono a trovare un loro spazio di comunicazione. Lode quindi al Musée cantonal des beaux-arts che ospita questa mostra e alle gallerie che sostengono il lavoro di Francis Alÿs.

Roberto Vidali

Info:

Francis Alÿs, As Long as I’m Walking
15/10/2021 – 16/01/2022
PLATEFORME 10
MCBA
Musée cantonal des beaux-arts
place de la Gare 16
1003 Lausanne
+41 21 316 34 45
info.beaux-arts@vd.ch

Francis Alÿs, Untitled (2nd Battalion Parachute Regiment), 2013. Photo © David Zwirner, New YorkFrancis Alÿs, Untitled (2nd Battalion Parachute Regiment), 2013. Photo © David Zwirner, New York

Francis Alÿs, Retoque/Painting, 2008, stampa fotografica da video (8:31 min). Videostill © Eye Filmmuseum, Amsterdam

Francis Alÿs, The Green Line, 2004, still da video (17:41 min). Videostill © Francis Alÿs Studio

Francis Alÿs, Paradox of Praxis 5, (Sometimes We Dream as We Live and Sometimes We Live as We Dream), 2013, still da video (7:49 min).  Videostill © Francis Alÿs Studio

Francis Alÿs, Reel-Unreel, 2011, still da video (19:32 min). Videostill © Francis Alÿs Studio


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