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Giovanni Termini. Il sonno della pozzanghera

Giovanni Termini. Il sonno della pozzanghera

Se il sonno della ragione genera mostri, come ci ha insegnato in piena temperie illuminista Francisco Goya nella celeberrima incisione realizzata nel 1797 e inclusa nel ciclo de Los caprichos, cosa succede quando ad assopirsi è una pozza d’acqua? Ce lo racconta per immagini e volumi Giovanni Termini ne Il sonno della pozzanghera, la sua quarta mostra personale nella Galleria ME Vannucci di Pistoia. A differenza delle mostre pregresse, scaturite dall’esplorazione di differenti modalità di occupazione dello spazio, in quest’allestimento l’artista ha lavorato sulle specificità della memoria del luogo, un edificio industriale che in precedenza ospitava le officine elettromeccaniche e ferroviarie Storai, dove si è formata un’intera generazione di metalmeccanici toscani. Questo grande capannone, oggi restaurato e dal 2018 sede della galleria, reca ancora sulle pareti e sul pavimento le tracce dei processi lavorativi che si svolgevano al suo interno, nel loro insieme leggibili come una mappa della memoria. Questo spazio, fin dalla sua fondazione, ha di per sé un forte legame estetico e concettuale con il lavoro di Termini, che sette anni fa inaugurò la programmazione espositiva della galleria con il progetto site-specific Tempo instabile con probabili schiarite, un tetto in scala reale poggiato a poca distanza da terra in cui il comignolo era sostituito da una pila di sedie in PVC.

Giovanni Termini, “Il sonno della pozzanghera”, installation view, galleria ME Vannucci, Pistoia. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

Giovanni Termini, “Il sonno della pozzanghera”, installation view, galleria ME Vannucci, Pistoia. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

In quest’ultima occasione l’artista ha deciso di partire ragionando, invece, sul pavimento della sala principale, in cui l’affiorare di trasudamenti oleosi dal basso, a distanza di qualche tempo dalla ristrutturazione, ricollega il luogo alla sua destinazione d’uso iniziale. La scelta è, dunque, quella di valorizzare questa emersione di memoria costruendo una macchia nuova al centro dell’ambiente, questa volta superficiale ed effimera perché generata dalla perdita d’acqua di un rubinetto lasciato a gocciolare. La pozzanghera, una chiazza cangiante di riflessi diversi a seconda della luce che asciugandosi ne cambierà forma e colore, è un’ulteriore memoria sovrapposta a quella già esistente, oltre a catalizzare reminiscenze artistiche importanti. In primis, la macchia nera circondata da sedie di Jannis Kounellis (Senza titolo, 2006, esposta alla Fondazione Pomodoro di Milano nella mostra Atto unico), ma anche i 9 mq. di pozzanghere (1967) di Pino Pascali, composti da nove pannelli di truciolato laccato e gesso (e nell’idea dell’artista anche acqua) che evidenziavano la sua attenzione verso la natura, l’interesse per i materiali di derivazione industriale e una nuova aspirazione minimalista. Anche per Termini la pozzanghera è mappatura e presupposto di cose che accadono e gli accadimenti sono le altre opere che, concepite singolarmente e in maniera non correlata, si relazionano a vicenda riverberandosi sulla sua superficie liquida, che ne rimarca le affinità in termini di forma, affettività, contenuto e temperatura cromatica. Il fulcro della mostra è dunque la scultura-fontana specchiante alimentata da un tubo di gomma che, dopo aver attraversato tutta la galleria, passando per il vetro forato di una finestra si collega all’impianto di irrigazione del cortile esterno. Se il sonno della ragione genera mostri, come si diceva all’inizio, quello della pozzanghera fa scaturire poesia, trasformando un problema (la perdita d’acqua e la necessità di orchestrare i lavori) in un atto di sintesi creativa.

Giovanni Termini, “Il sonno della pozzanghera”, installation view, galleria ME Vannucci, Pistoia. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

Giovanni Termini, “Il sonno della pozzanghera”, installation view, galleria ME Vannucci, Pistoia. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

Tutte le opere in mostra sono accomunate, oltre che dalla medesima intonazione grigio-argentea data dal procedimento di zincatura a cui sono state sottoposte con l’intento di renderle durevoli nel tempo e omogenee tra loro, dal fatto di derivare da oggetti di uso comune umanizzati da un processo di de-funzionalizzazione poetica.  A questo modo l’artista li rende precarie manifestazioni di una quotidianità traslata in una dimensione atemporale e universale, dove l’attualità stringente non si cala mai in cronaca. In ordine sparso (ma calibrato alla perfezione) troviamo quindi: Segnalimite (2025), calco in alluminio di un paracarro stradale divelto e spezzato da un urto, memoria tangibile dell’avvenuto sconfinamento e pietra miliare di un’intera strada (da realizzare in futuro) fiancheggiata da simili reperti di collisioni, unico oggetto dichiaratamente scultoreo in senso tradizionale. E poi Materassino (2024-2025), un vero tappetino da palestra arrotolato attorno a un’anima tubolare di cemento che materializza il vuoto centrale attorno al quale di regola esso viene avvolto. L’assemblaggio è un pretesto per ragionare sui gesti della scultura nella sua dialettica soffice-rigido con un forte riferimento al corpo umano, evidente sia nell’idea di impronta suggerita dal neoprene, sia dall’analogia del blocco nel suo insieme con un corpo rannicchiato in sé stesso.

Giovanni Termini, “Il sonno della pozzanghera”, installation view, galleria ME Vannucci, Pistoia. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

Giovanni Termini, “Il sonno della pozzanghera”, installation view, galleria ME Vannucci, Pistoia. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

Poi incontriamo Combinazione (2024-2025), composizione di cavalletti normalmente utilizzati per comporre impalcature mobili, qui ascendenti ma non praticabili. In questo lavoro il movimento ascensionale a spirale dei vari elementi sovrapposti attorno a un perno centrale ricorda illustri esempi della storia dell’arte come La città che sale (1910-1911) di Umberto Boccioni o il modello per il Monumento alla Terza Internazionale (1920) di Vladimir Tatlin, a dimostrazione di quanto la poetica dell’artista, a dispetto degli strumenti ordinari e quasi sottotono mediante i quali si esprime, sia raffinata, consapevole e ricca di implicazioni. Se nell’opera precedente il vuoto era stato sostituito dal cemento, qui la rotazione scalare dei cavalletti individua lo spazio e il movimento di una scultura solo immaginabile, la cui assenza ci ricorda che tutto è instabile e può cambiare. Il cavalletto all’apice, l’unico a non essere stato zincato, è rivestito da una seconda pelle di denim, omaggio al lavoro nel suo alludere alla divisa degli operai che vivono i cantieri da cui sono stati idealmente prelevati. Lungo la stessa diagonale al lato opposto della sala troviamo Panchina (2024-2025), un vero pezzo di arredo urbano posizionato in verticale e occultato da un grande foglio di legno flessibile trattenuto alle due estremità combacianti da due fermagli in ferro. La panchina, isolata da questa barriera a forma di goccia, non può più svolgere la sua funzione relazionale nell’urbanistica contemporanea, in cui la sua presenza viene spesso censurata dai progetti di restyling in quanto possibile catalizzatore di degrado e assembramento. Allo stesso tempo, un semplice gesto come allentare le pinze e raddrizzare la panchina basterebbe per ripristinare la possibilità di incontro. Nella scultura c’è sempre una possibilità di liberazione, le forme come le cose della vita non sono mai categoriche né definitive.

Giovanni Termini, “Tappeto”, 2024/25, legno laccato, gomma e rotolo di scotch, 145 x 126 x 5 cm. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

Giovanni Termini, “Tappeto”, 2024/25, legno laccato, gomma e rotolo di scotch, 145 x 126 x 5 cm. Courtesy l’artista e ME Vannucci, Pistoia. Photo credit Michele Alberto Sereni

Proseguiamo con Porta (2024-2025), un vano di ferro zincato appoggiato provvisoriamente in un angolo, in cui l’apertura è schermata da un groviglio di catene in ferro che, se fossero sciolte, ricorderebbero le tendine anti-mosche delle case dei nostri parenti anziani, come i nonni siciliani dell’artista. La barriera è stata aggirata e l’estraneo è entrato, ma non c’è nessun dentro perché la porta non è nel suo alloggiamento, dal quale è stata tolta o dovrà essere montata. Infine Tappeto (2024-2025), un vero zerbino in gomma spessa da officina posizionato a terra e incorniciato da pannelli laccati con riproduzioni fotografiche della texture del legno, ancora una volta quello delle credenze degli anni ’50 (un altro affioramento di livello di memoria). Al centro uno strano rigonfiamento, dato dalla presenza, a noi quasi del tutto preclusa, di un rotolo di nastro adesivo americano (un tic dell’artista, la sorniona ammirazione per la sua superiore potenza adesiva), una dimenticanza di qualcuno come il rubinetto dell’acqua lasciato aperto che ha prodotto la pozzanghera nella sala principale. Potrebbe essere qualsiasi atro oggetto, oppure anche la sporcizia spinta con la scopa sotto al tappeto. È interessante notare, per finire, come in tutti i lavori (eccetto Il sonno della pozzanghera) il titolo sia la pura designazione dell’oggetto protagonista, una tautologia che inevitabilmente colloca la ricerca di Giovanni Termini in una precisa linea artistica, quella del concettuale più canonico, di cui esplora con intelligente leggerezza un’inedita declinazione affettiva.

Info:

Giovanni Termini. Il sonno della pozzanghera
testo di Saverio Verini
9/03/2025- 1/05/2025
Galleria ME Vannucci
Via Gorizia, 122 – Pistoia
www.mevannucci.com


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