In uno scritto del 1930 intitolato Avvertimenti, il critico d’arte Massimo Bontempelli racconta come un’opera possa essere generata in una ‘sfera superiore’, laddove, sfruttando suoni e rumori, riesca di per sé a emergere come un’invenzione fabulosa in quanto espressione di un felice sfogo lirico.[1] Perciò le tracce sonore utili a tale ‘sfogo’ si pongono come azioni fisiche, un ricco repertorio di gesti e movimenti che, assieme ai dispositivi utilizzati nella produzione, aprono a diverse questioni. Tra quest’ultime rientrano: gli strumenti utili alla creazione del suono, la natura dell’atto funzionale – in quanto risultato di un equilibrato comportamento meccanico in rapporto alla sua capacità espressiva – assieme alla dimensione esperienziale e performativa.
Va da sé che da tali presupposti si giunga verso una naturale trasformazione della classica esperienza artistica, per cui al normale dominio dell’immagine visiva, il suono che la sostituisce genera il suo opposto: un’opera priva di consistenza materica, fisica e tangibile, un timbro sonoro immateriale che, sprigionandosi liberamente nello spazio, si fa impermanente. Inoltre, la produzione fonica apre a diverse questioni, ovvero quanto il suono possa essere concepito come opera d’arte, come si possa integrare nell’atto di creazione e con quali modalità possa essere reso fruibile. Queste stimolanti questioni sono affrontate con profondità tecnica e d’indagine da Iginio De Luca, alla Litografia Bulla di Roma, nel progetto intitolato Carborundum.
Tra gli elementi di particolare unicità di quanto proposto v’è il rapporto di ricerca e dialogo tra l’artista e le titolari Beatrice e Flaminia Bulla, che assieme a Romolo Bulla gestiscono da sette generazioni la storica bottega nel centro storico di Roma. Difatti in Litografia, gli interventi degli artisti non intendono solamente produrre opere all’interno del laboratorio, bensì sono sviluppi di studio orientati a creare nuove modalità e forme di produzione, sempre variabili in relazione a chi si lascia coinvolgere. In questo caso De Luca ha lavorato con le antiche pietre litografiche e il suono prodotto nell’atto della cancellatura è stato inciso in vinili e tradotto attraverso tracce acustiche in una incisione stampata in litografia. Tant’è che l’artista è stato pienamente capace di sfruttare gli strumenti di lavoro della storica bottega, sino a trovare il modo di interpretarli attorno a uno dei fulcri principali della sua ricerca, ovverosia il suono. Tuttavia, nonostante il processo di produzione sia limpido, quasi meccanico, emerge sempre un’introspezione umana, a tratti oscura, perché il valore della sparizione della traccia visiva sulla pietra litografica risulta evidenziata in una dimensione evenementale[2].
Così, la cancellatura delle pietre litografiche e il suono prodotto sono elementi di una processualità fisica dalle cui tracce sonore emerge l’aspetto più profondo di tutta l’operazione, originato dalla concentrazione introspettiva dell’artista al momento dello sfregamento, in opposizione al silenzio arcaico della bottega. Quanto avviene è una riconsiderazione degli strumenti artigianali usati in loco che, prima di essere ripensati e utilizzati come tali, sono considerati un’estensione naturale dei sensi. Perciò Carborundum risulta un’interessante indagine sulla consistenza fisica della traccia visiva e sulla resistenza all’attrito della materia. Si tratta di un’operazione rituale, che mette in relazione elementi apparentemente incompatibili: la rassomiglianza fra la cosa e la sua immagine, oramai del tutto cancellata, assieme al suono generato da tale processo che si trasforma in traccia eterna e infinitamente riproducibile, quindi tangibile e infine visibile.
Così il progetto non potrà essere separato in alcun modo dal luogo in cui è stato originato e non riuscirà a essere effettivamente in sé, perché le articolazioni, quali la pulitura della pietra litografica e la sua registrazione conducono altrove. Ossia al valore della traccia e dell’impronta litografica secondo un procedimento rigoroso e circolare in cui il segno sulla pietra viene cancellato e poi il suono generato viene nuovamente inciso. Tutte questi momenti si inseriscono in un processo che scopre la nudità dei materiali, così ne risulta un’esplorazione degli utensili della Litografia, oggetti culturali ricchi di patine materiali e portatori di gesti visibili e invisibili, catalizzatori di energie e memorie. In questa misura la traccia sonora, a tratti stridente e acuta, è capace di raccontare la porosità del materiale e la sua reazione chimica. Si tratta della comunicazione immediata sul cambiamento di uno stato fisico, ma anche di un atto rigenerativo che contribuisce al senso della trasformazione materiale di tracce sonore che non rimangono affatto neutre in quanto portatrici del senso della trasformazione.
In questo modo la fisica dell’azione e il conseguente suono di attrito prodotto, prima che essere nient’altro che un rumore, rappresenta l’esigenza naturale e necessaria della pratica di bottega di far sparire le tracce per farne giungerne altre. Quindi perché non considerare Carborundum come un’esperienza di insolita sinestesia? Sicuramente è così, giacché la compresenza di elementi e azioni opposte avvalora l’aspetto effimero e con De Luca l’atto del levare si può intendere metaforicamente come il gesto che anima il ritmo dell’intera impronta sonora. Inoltre, l’uso della polvere di carburo di silicio, usato in forma abrasiva per pulire le pietre, induce a pensare come quanto proposto ruoti attorno alla sottrazione da cui si genera un vivo interesse verso lo scarto, il dismesso, di quanto oggi giorno venga considerato secondario. È certo che nell’unica litografia stampata e nei vinili incisi, che portano le tracce sonore delle cancellature, in realtà si celino sia una profonda dichiarazione sulla percezione del mondo, sia un ultimo dolcissimo rito di addio di quello che un altro artista, prima di De Luca, aveva fissato nella pietra litografica. Si tratta della narrazione più intima che vive nella bottega in diversi stati materiali, che ora emergono come il risultato di un’azione performativa in cui tutti gli elementi si scuotono in una tacita sintonia.
Maria Vittoria Pinotti
[1] Massimo Bontempelli, L’avventura Novecentista, in Realismo Magico e altri scritti d’arte, a cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano, 2006, p. 50.
[2] Secondo tale termine l’opera d’arte è generata da un processo di una azione che ha carattere di evento.
Info:
Iginio De Luca. Carborundum
Litografia Bulla
Via del Vantaggio 2, Roma
25/10/2024 – 20/12/2024
Visitabile su appuntamento
www.litografiabulla.com
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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