Il Cantiere di Paolo Icaro alla P420

Paolo Icaro (Torino, 1936) abbandona giovanissimo gli studi universitari per dedicarsi alla scultura nello studio di Umberto Mastroianni e in poco tempo viene invitato nelle principali rassegne dell’avanguardia artistica internazionale dove viene insignito di importanti riconoscimenti. Fin da subito il suo lavoro, spesso accostato alle tendenze più in voga tra gli anni ’60 e ’70, come l’arte povera, l’arte concettuale e la process art, si distingue per un inconfondibile connubio di rigore intellettuale e visionarietà, che ancora oggi rendono la sua cifra stilistica inconfondibile nel chiassoso scenario della ribalta artistica contemporanea. Da sempre il fulcro del suo lavoro è lo spazio, inteso come materia ermetica da plasmare, da misurare e da abitare con il corpo e con il pensiero, in una continua esplorazione delle potenzialità sensitive e tattili di materiali disadorni come il vetro, il legno, il piombo, la carta o il gesso.

Dal 1966 al 1968 si trasferisce a New York, dove abita nella zona industriale di Manhattan che sarebbe di lì a poco diventata Soho e dove, osservando dalla finestra del suo studio le strutture metalliche circostanti, che sembravano ingabbiare il cielo, concepisce le sue prime Forme di spazio, sculture in profilati metallici rinominate subito dopo Gabbie, in cui la scultura diventa costruzione di uno spazio ideale e letteralmente a misura d’uomo. In queste griglie apparentemente severe e minimali, infatti, la distanza tra le sbarre corrisponde alla larghezza delle anche dell’artista, che suggerisce di attraversarle per smentire l’impressione di separazione e reclusione solitamente suscitata da questa tipologia di strutture e sperimentare insospettabili possibilità di simbiosi tra forme geometriche e antropomorfe. Il punto di partenza di tutti i suoi lavori è la presa di coscienza delle intrinseche qualità di uno spazio misurato ma infinito, uno spazio che si fa luogo, narrazione, matrice e memoria di un’affascinante successione di eventi plastici che si succedono nel tempo, attivati dal gesto dell’artista e dalla reazione dello spettatore.

Nel 1971 Paolo Icaro si trasferisce nel Connecticut, dove soggiorna in campagna e dove in mancanza di metallo si avvicina al gesso, materiale versatile in grado di registrare l’impronta di un gesto che diventa un volume concretamente misurabile, uno spazio dotato di qualità tattili (levigatezza, ruvidità, peso) proprie della scultura senza mai apparire inerte. Imprimere nel gesso la misura del suo palmo, incidere la distanza tra le sue pupille o la lunghezza delle dita significa per l’artista portare nell’esattezza l’eccedenza dell’errore umano che con la sua costitutiva imprevedibilità galvanizza l’inerzia della materia rendendola significante.  Ogni opera è per lui una traccia sublimata di un passaggio di stato, della fisicità di un volume che, per quanto rarefatto, è sempre il risultato di un’operazione scultorea che coinvolge lo spazio, in cui l’oggetto prodotto è come un sintomo, un punto di riferimento che rende tangibili la tensione e l’energia delle innumerevoli possibili forme generate dalla nostra esistenza. La forma si compone e decompone a seconda dello sguardo di chi è capace di percepirla con gli occhi del visionario e per questo Icaro definisce le sue sculture come creature fatte più di spazio che di materia, come filtri di comunicazione che riescono a rendere immanenti le astratte perfezioni dei solidi platonici e a sacralizzare la costitutiva incompletezza dell’essere umano aggiungendo una punta di dissimulata ironia.

La mostra Cantiere alla galleria P420 di Bologna è una preziosa occasione per comprendere il processo creativo di Paolo Icaro e per immergersi con naturalezza in una costellazione di eventi spaziali integrati ma irripetibili nella loro individualità, ciascuno dei quali, accadendo davanti ai nostri occhi, diventa una tappa obbligata di un percorso labirintico ma misteriosamente intelligibile all’istinto nelle sue logiche interne. La rassegna mette in scena più di trenta lavori realizzati dall’artista in un arco di tempo che va dal 1969 al 2018 instaurando un dialogo osmotico tra diverse fasi creative in una grande architettura-organismo che dimostra come nel corso degli anni Icaro sia stato capace di rimanere fedele a sé stesso senza scadere nella ripetizione o in sterili dogmatismi. Come spiega lo stesso artista “Cantiere è un luogo di lavori in corso: la domanda, la scelta, si susseguono attraversate dal filtro critico, le ipotesi si convertono in azioni che aprono altre ipotesi, altre riflessioni critiche. Nel Cantiere lo spazio è dinamico, continuamente modificato, ripensato, aggiustato, deformato e il fare lascia spazio al disfare per rifare”.

La sintassi della mostra si articola per traiettorie rastremate segnalate da sottili sculture-palizzate in legno, porzioni di retta che idealmente bucano il pavimento, il soffitto e le pareti per proseguire in uno spazio mentale in continua espansione. Sono linee di equilibrio che instaurano un rapporto immaginifico con lo spazio, ritagliandolo in sezioni infinite come l’intero da cui sono generate. La loro presenza è scarna e concettuale, ma saldamente ancorata alla realtà sensibile da chiodi a vista e scheggiature che ci ricordano come la forza della scultura risieda nel suo essere a volte sgarbata nel conservare e valorizzare le irregolarità dei suoi materiali costitutivi. Il leitmotiv del percorso espositivo potrebbe essere l’attraversamento, inteso sia come immaginaria visualizzazione delle superfici geometriche che potrebbero collegare tra loro questi segmenti matematico materici (che a loro volta, se ruotati attorno al loro asse produrrebbero solidi immateriali), sia come fascinazione per la trasparenza, che si evince ancora prima di entrare in galleria dalle vetrine parzialmente velate da uno strato di pittura bianca.

La stessa pittura lattiginosa offusca gli acetati trasparenti instabilmente assicurati alle pareti come polaroid di viaggio a tema libero e le lamiere di allumino della seconda sala, le cui proprietà specchianti vengono concentrate nei punti cardinali di un corpo fragile ma adamantino nelle sue proporzioni. E poi il gesso, pasta malleabile che indurisce per sempre la fluidità di un’azione senza bloccarla, sensuale traccia di una tensione che si stempera in un letto di sovrabbondanza da lasciar defluire come una marea densa o da far acquietare all’interno di una forma concava. Talvolta il Racconto si concentra in preziosi parallelepipedi misurabili con il palmo, diversi per peso, essenza e venature ma analoghi nell’intenzione di essere ugualmente diversi.

Tutto appare segretamente organico nonostante l’assenza di espliciti richiami figurativi e anche la severità del metallo viene stemperata da colorazioni sobriamente ludiche, come l’azzurrino di Hopscotch (1967), duetto tra una griglia di acciaio e una catena che ne diluisce i contorni. A volte il colore non teme di essere eccessivo, come nelle strutture angolari chiamate Punte della Favola (1970) in cui l’acciaio brunito e cromato è rivestito da un luccicante strato di glitter nero. Lo stesso nero e la stessa struttura trasformata in concavità solida ritornano in Angolo Buio (1971), sfavillante orfico buco nero in cui perdersi per un’istantanea eternità che nulla deve invidiare ai lussuosi baratri Vantablack di Anish Kapoor.

Info:

Paolo Icaro. Cantiere
23 novembre 2019 – 15 gennaio 2020
P420
Via Azzo Gardino 9, Bologna

Paolo Icaro

For all the images: Paolo Icaro, Cantiere, 2019, installation view P420, Bologna (ph. M. Sereni)


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