Smarrimento necessario: è questa la prima sensazione che si ha entrando nel padiglione australiano della Biennale 2024, che si aggiudica il Leone d’Oro dedicato alle partecipazioni nazionali, grazie a una monumentale opera antropologico-artistica di Archie Moore, di origine aborigena e specificamente di etnia Kamilaroi/Bigambul.
L’installazione di Moore si svela a più livelli. Un primo livello, stupefacente per minuziosità e abnegazione, è quello del gigantesco albero genealogico che ripercorre 65mila anni di popolamento delle etnie native. Sono infiniti mattoncini bianchi in gessetto su parete nera che incrociano la genealogia privata dell’artista con quella dell’umanità. Provando, infatti, a leggere e risalire la corrente dei popoli che hanno abitato sin dalle origini quel continente, si giunge agli albori della comparsa sulla terra del Sapiens.
Il secondo livello è quello di un enorme vuoto: il centro del padiglione è occupato da una vasca d’acqua riflettente e che funge da documento sociologico. Rappresenta, infatti, la denuncia dell’emarginazione cui sono sottoposte le popolazioni indigene anche nell’Australia contemporanea. «Siamo il 3,8% della popolazione australiana, eppure, un terzo della popolazione carceraria. Per un aborigeno, le porte delle prigioni si aprono più facilmente per reati banali, come bere in pubblico», ha dichiarato di recente Moore, in un’intervista. Il terzo livello è quello della pila di documenti che sono in vista nel cuore del padiglione: si tratta di registri di medicina legale, in custodia della polizia, che riguardano la morte di 551 nativi dal 1991 ad oggi. I nomi delle vittime sono stati cancellati, alla maniera di Emilio Isgrò e, come succede spesso per l’artista siciliano, tali interventi potenziano la forza del messaggio.
Kith and kin è il titolo dato a questo stupefacente memoriale contemporaneo, frutto di un lavoro certosino durato mesi. “Amici e parenti” è la prima e immediata traduzione di questa espressione inglese, ma Moore ne mostra sottili sfumature linguistiche che intrecciano la storia personale di discendente e la storia dell’intero genere umano. È un inno alla cura reciproca, al fare comunità, alle comuni origini, senza nessuna forma di timidezza l’artista ci mostra anche il senso dispregiativo che parole ordinarie, come ‘madre’, ‘donna’, ‘uomo’, ‘bambino’, possono assumere a seconda del podio della storia in cui risiede chi le pronuncia.
Questa incredibile costellazione artistica presentata dall’Australia è un esempio di fratellanza universale, in piena sintonia con il messaggio che sottende tutta la Biennale. Per non sentirci stranieri, dovremmo essere capaci di abbracciare e includere tutti, a partire dagli ultimi. Kith and kin, tuttavia, è un inno che rivela una sottintesa fragilità: l’alfabeto genealogico è scritto con il gesso e dunque può essere cancellato irreversibilmente, senza lasciare traccia. E ancor di più, nella successione del tempo ci sono spazi vuoti, causati dalle violenze dei colonizzatori, padroni assoluti delle vite delle popolazioni oppresse, alle quali è stata sottratta la memoria. Memoria che la magnifica installazione di Archie Moore riporta sul palcoscenico della storia.
Info:
Archie Moore, Kith and kin
a cura di Ellie Buttrose
20/04 – 24/11/2024
60. Biennale di Venezia, Giardini, Padiglione Australia
GIARDINI
Sono Giovanni Crotti e sono nato nel giugno 1968 a Reggio Calabria per rinascere nel giugno 2014 a Piacenza, città dove vivo. Il mio reddito è garantito dalle consulenze digitali, per poi spenderlo in gran parte nell’arte e nelle lettere: sono stato e sono curatore di contenuti e organizzatore di eventi culturali per artisti, gallerie e spazi istituzionali, oltre che scrittore di recensioni di mostre, creativi di ogni epoca e libri.
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