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Il rapporto uomo-natura nel mondo sensoriale di Julian Charriére

Al MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna, fino al prossimo 8 Settembre, le innumerevoli sperimentazioni dell’artista svizzero Julian Charrière offrono al visitatore la possibilità di approfondire il complesso rapporto esistente tra uomo e natura. La mostra temporanea “All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere”, curata da Lorenzo Balbi e sponsorizzata principalmente dal gruppo Hera, oltre che dal Gruppo Unipol e da Pro Helvetia, responsabilizza l’individuo su quelle che sono state e saranno le sue azioni in un percorso di totale coinvolgimento emotivo.

Sono, in particolare, i sensi dell’udito e della vista ad essere stimolati dall’artista che, in questo modo, accoglie il fruitore nel proprio mondo di suggestioni, pensieri e sensazioni.

Nella prima sala, per esempio, le intense sonorità realizzate da Edward Davenport e il video a colori in 4K garantiscono, grazie anche al buio circostante, una totale immersione del soggetto.

Attraverso la visione di luoghi desolati e di elementi naturali, “Iroojrilik” (2016) introduce già alcune delle tematiche ricorrenti lungo il percorso espositivo, prima fra tutte la degenerazione del progresso scientifico. Nel suo imporsi sulla natura, modificandone i tratti, l’uomo compie degli errori irreversibili ed eterni. Così, nella video-installazione “As We Used to Float” (2018) protagonista è l’elica di una nave, traccia delle esplosioni nucleari compiute dagli Americani sui fondali oceanici.

Emblema del progresso scientifico e grande motivo di vanto nella lotta tra superpotenze, la bomba atomica viene spesso portata da Julian Charrière come esempio del contraddittorio comportamento umano. Ciò che l’uomo crea, inconsapevole delle proprie azioni, si trasforma in qualcosa di spesso distruttivo. Ne sono testimonianza le isole di Bikini, su cui, ancora oggi, si trovano tracce di materiale radioattivo. Segni impercettibili ma indelebili che vengono riportati alla luce da fotografie come “Tewa-First Light” (2016). L’idillico tramonto raffigurato subisce un processo di degradazione attraverso tracce radioattive presenti in superficie. Si crea, così, un netto contrasto tra il sole all’orizzonte e il secondo “sole” atomico.

Vera fonte d’energia universale, il Sole è al centro della video-installazione “Somehow They Never Stop Doing What They Always Did” (2019) nella quale l’ampliamento del campo visivo stabilisce una definitiva supremazia della Natura sull’uomo.

Altro elemento naturale ricorrente è l’acqua che risente, a causa del suo continuo divenire, del dualismo creazione-distruzione tipico del genere umano. È il caso della serie fotografica “Where Water Meet” in cui l’acqua si sostituisce all’uomo, portando a un progressivo dissolvimento le figure dei free driver immersi. Il rivendicare la supremazia della Natura è uno dei modi attraverso cui le opere di Julian Charrière tentano di sovvertire questo inarrestabile processo di degenerazione.

Altri tentativi di superare il difficile e complesso periodo storico attuale emergono, nella loro immediatezza, in installazioni come “All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere” (2018).  Un imponente campana d’acciaio domina lo spazio, mantenuta in perfetto equilibrio da una controparte, ovvero un conglomerato di sacchetti di plastica appesi al soffitto e contenenti acqua marina. La campana è uno strumento sonoro, spesso utilizzato nella pratica religiosa, con cui l’artista cerca di risvegliare la spiritualità del singolo e il suo legame con l’universo. Un legame ormai andato perduto così come denunciato dalla serie di video subacquei “The Gods Must Be Crazy” (2019). Il suono avvolgente che fuoriesce dallo strumento corrisponde al respiro di un sommozzatore, immerso nell’abisso con l’obiettivo di esplorare l’Oceano. Un’immersione, oltre che fisica, mentale; un’approfondita analisi psicologica che il singolo compie per prendere consapevolezza dei propri pensieri e, soprattutto, azioni.

L’ultimo tentativo viene, poi, compiuto dall’artista nell’installazione “We Are all Astronauts” (2013). L’utilizzo di una “carta vetrata internazionale”, prodotta con particolari tipi di minerali e applicata su una serie di mappamondi, rende possibile una definitiva messa in discussione dei confini tracciati dall’uomo nel suo volersi imporre sul territorio.

Giulia Rosi

Info:

Julian Charriére. All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere
A cura di Lorenzo Balbi
9 giugno – 8 settembre 2019
MAMbo
Via Don Minzoni, 14 Bologna

Julian CharriéreJulian Charriére, We Are All Astronauts, 2013
 11 mappamondi in vetro, plastica e carta (oggetti di recupero) abrasi con carta vetrata composta da sabbie minerali di vari paesi, piano di tavolo sospeso, polvere caduta dalla superficie dei mappamondi
 Courtesy l’artista; DITTRICH & SCHLECHTRIEM, Berlino; Galerie Tschudi, Zuoz; Sean Kelly, New York; Sies+Höke, Düsseldorf

Julian Charriére, All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, 2018
 Campana da immersione in acciaio con sistema audio stereofonico, struttura in acciaio inox, sacchi di plastica, acqua marina del Pacifico, sistema di carrucole, cavi d’acciaio
 Courtesy l’artista; DITTRICH & SCHLECHTRIEM, Berlino; Galerie Tschudi, Zuoz; Sean Kelly, New York; Sies+Höke, Düsseldorf

Julian Charriére, Where Waters Meet, 2019
 Stampa ai pigmenti su carta Hahnemühle Photo Rag Ultra Smooth
 Courtesy l’artista; DITTRICH & SCHLECHTRIEM, Berlino; Galerie Tschudi, Zuoz

Julian Charriére, Iroojrilik, 2016
 Video 4K a colori con audio stereofonico, sonoro di Edward Davenport, 21’3’’ (loop) 
 Courtesy l’artista; DITTRICH & SCHLECHTRIEM, Berlino; Galerie Tschudi, Zuoz; Sean Kelly, New York; Sies+Höke, Düsseldorf


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