I Lied in VISA Center

Guerre e migrazioni costituiscono uno dei tratti più caratterizzanti della nostra contemporaneità e l’ingerenza globale di tali fenomeni ha avuto forti ripercussioni anche sulla ricerca artistica, che negli ultimi anni ha esplorato con vari livelli di coinvolgimento e approfondimento le implicazioni estetiche, sociali e geopolitiche di questa congiuntura epocale.  La mostra I Lied in VISA Center presentata da GALLLERIAPIÙ indaga le conseguenze emozionali, intellettuali e psicologiche dello spaesamento attraverso le opere di 8 artisti accomunati dal fatto di avere una doppia nazionalità o di risiedere in un Paese diverso da quello in cui son nati. Il difficile processo dell’integrazione, oltre alle palesi complicazioni pratiche e burocratiche, comporta una delicata mediazione tra il pregresso bagaglio esperienziale dell’individuo e la nuova realtà in cui si trova, spesso forzatamente, a vivere. Adattarsi e interiorizzare l’alterità per riconquistare la propria individualità diventa un’imprescindibile urgenza esistenziale che richiede una radicale re-invenzione del sé e una delicata rielaborazione dei propri ricordi. Costruirsi una nuova identità può essere molto doloroso, ma anche interessante, divertente e criticamente stimolante: i lavori selezionati per l’occasione dalla curatrice Kateryna Filyuk riflettono differenti modi di raccordare il vissuto personale con la Storia e diversi approcci alla rinegoziazione tra passato e presente componendo un’emblematica mappatura delle varie forme di resistenza e trasformazione generate dallo sradicamento culturale.

Il titolo della mostra riprende una frase scritta sulla parete di una toilette di un museo di Berlino che Lia Dostlieva ha fotografato e riprodotto su una semplice striscia di nastro adesivo incollata sulla porta d’ingresso della galleria. L’affermazione, che allude alle false informazioni che i richiedenti asilo sono costretti a dichiarare per ottenere gli agognati documenti, è il primo passo di una collezione di frasi lette o sentite dall’artista che presentano in modo concettualmente e visivamente lapidario la drammatica condizione degli sfollati di guerra.

La narrazione si fa più intricata nel video realizzato da Elena Mazzi in collaborazione con Enrica Camporesi, in cui due figure in controluce sedute a un tavolo interpretano un immaginario colloquio tra un richiedente asilo (uomo) e un funzionario (donna) dell’ufficio immigrazione. Il dialogo, costellato di fraintendimenti, timidezze e reciproche reticenze, mette in scena gli insospettabili risvolti emotivi di una procedura burocratica e i più comuni equivoci con cui si tende a identificare l’altro secondo idee generiche e precostituite. I due personaggi, spogliandosi con circospezione dei rispettivi ruoli, instaurano una labile confidenza che riconduce il protocollo di mistificazioni su cui si basa l’apparente razionalità della pratica amministrativa alla sua componente umana, lasciando trapelare le dure esperienze di vita e la ricchezza interiore del rifugiato e la sensibilità del funzionario combattuto tra la propria etica personale e le regole professionali.

La follia di queste dinamiche diventa ancora più esplicita nel lavoro di Alevtina Kakhidze, che analizza la situazione dei cosiddetti IDP (internally displaced people), gli sfollati che in caso di guerra lasciano una zona a rischio del proprio Paese per rifugiarsi in un’altra area della stessa nazione, analizzando il caso paradigmatico delle persone che negli ultimi anni hanno lasciato il Donbass per trasferirsi in altre regioni Ucraine in seguito ai conflitti con la Russia e all’auto-proclamazione delle repubbliche di Doneck e Lugansk. In particolare l’artista esamina la condizione delle classi sociali più indifese, malati e pensionati privati dei propri diritti economici dal recente assetto politico, che per ricevere il modestissimo supporto governativo destinato agli IDP fingono di essersi spostati in territori ancora soggetti all’Ucraina pur continuando a risiedere nelle proprie abitazioni ora ubicate in una surreale terra di nessuno abbandonata da vecchie e nuove istituzioni. Kakhidze sintetizza la situazione in una serie di quadretti fintamente naif che raccontano le storie di 6 diverse persone (tra cui sua madre) invischiate in questo limbo legislativo. Le singolarità di ogni vicenda confluiscono in un organigramma simbolico che rileva le differenti sfumature politiche, esistenziali, intellettuali e legali della stessa menzogna evidenziando come il sistema non sia tarato per accettare la verità e l’individualità della persona ma risponda soltanto alle proprie astratte logiche interne. L’opera è completata da una grande pittura murale in cui l’artista disegna queste persone come alberi divelti sospesi su un terreno disseminato di bombe, a cui si affianca un boschetto di alberelli più giovani che riescono, malgrado tutto, ad adattarsi e piantare le proprie radici nell’instabilità.

Il superamento di condizioni sfavorevoli grazie allo spirito di adattamento è anche il motivo centrale dell’opera di Ola Lanko, che studiando le fotografie di  Bernd e Hilla Becher scopre che molte delle strutture catalogate dai due coniugi erano state realizzate negli anni ’30 e ’40 da migranti russi e ucraini senza esperienza e che la loro unicità nonostante la standardizzazione dei progetti derivava dal fatto che gli operai stessero imparando a realizzarle proprio mentre le costruivano. L’artista decide quindi di ricreare in galleria lo stesso processo di interpretazione/improvvisazione commissionando a due lavoratori Nordafricani la costruzione di una replica in legno di una di quelle strutture sulla base di una fotografia senza fornire ulteriori riferimenti.

Un anonimo paesaggio urbano e rurale fotografato in cerca di un’impossibile familiarità è l’incipit del progetto di Ana Blagojevic, che compie un lungo viaggio alla scoperta delle proprie radici visitando la Serbia, che lasciò da bambina per trasferirsi in Italia assieme ai genitori, e gli altri Paesi dell’ex Jugoslavia. Dopo aver attraversato quartieri e ricordi a lei ormai estranei, finisce per ritrovare se stessa e riconciliarsi con le proprie origini scoprendo nuovi luoghi d’affezione nei club musicali del circuito underground locale, dove riscontra reali corrispondenze con il suo vissuto personale.

Anche Stefan Milosavljevic incentra il suo lavoro artistico sul ripensamento della propria identità individuandone l’essenza nella fusione tra dualità antitetiche ma compresenti. In mostra espone una coppia di fotografie di famiglia che lo ritraggono da piccolo a distanza di un anno accanto a un parente vestito da babbo Natale, la prima con i capelli lunghi in cui sembra una femmina, l’altra con un taglio più maschile imposto dai genitori. Serbo da tempo residente in Italia, nella sua produzione plastica riflette sulla possibile integrazione delle due culture che improntano la sua sensibilità creativa presentando una serie di sculture che formalmente riecheggiano la classicità in cui il tradizionale marmo è sostituito dal ratluk, un impasto colorato commestibile di origine turca con cui in Serbia si prepara un dolce tradizionale connesso a rituali di ospitalità.

I ricordi d’infanzia ritornano nel lavoro di Andrii Dostliev, che nel 2014 è stato costretto a lasciare la sua casa natale e tutti gli oggetti del suo passato nella città occupata di Luhansk per fuggire in Polonia. Nell’impossibilità di accedere al proprio archivio di famiglia, l’artista prova a ricreare la sua storia affettiva alterando una serie di vecchie foto trovate in un mercatino tramite collage e interventi grafici. L’appropriazione di memorie altrui rimaste orfane diventa una forma di adozione che ricostruisce con amaro umorismo il filo di una vita spezzata e tenta di rielaborare il trauma dell’invasione in una metaforica occupazione pacifica.

Info:

I Lied in VISA Center
Artisti: Ana Blagojevic (RS/IT), Andrii Dostliev (PL/UA), Lia Dostlieva (PL/UA), Alevtina Kakhidze (UA), Ola Lanko (NL/UA), Elena Mazzi in collaborazione con Enrica Camporesi (IT), Stefan Milosavljevic (RS/IT)
a cura di Kateryna Filyuk
1 febbraio –  14 aprile 2018
GALLLERIAPIÙ
Via del Porto 48 a/b, Bologna

Ola Lanko, Tipple Cripple, scultura in legno, dimensioni variabili, 2018 courtesy GALLLERIAPIÙ

Andrii Dostliev, Occupation (serie), collage, dimensioni variabili, 2015 courtesy GALLLERIAPIÙ

Stefan Milosavljevic, Let us be together (serie), gesso e ratluk, dimensioni variabili, 2018 courtesy GALLLERIAPIÙ

I Lied in VISA Center, installation view, courtesy GALLLERIAPIÙ

Alevtina Kakhidze, If tolerance is the ability to deal with, performance, disegno su parete, disegni, collage, 2018 courtesy GALLLERIAPIÙ

Elena Mazzi in collaborazione con Enrica Camporesi, Performing the self – the interview, video installazione a 3 canali, 56min, 2017 courtesy GALLLERIAPIÙ

Lia Dostlieva, I lied in VISA center about my parents. They are in Luhansk, 5 frasi su scotch carta, 2018 courtesy GALLLERIAPIÙ

Ana Blagojevic, Recovery, installazione multimediale, 2012-2018 courtesy GALLLERIAPIÙ


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