Abbiamo conversato con Mattia Carretti, direttore creativo e co-fondatore, insieme a Luca Camellini, di fuse*, studio d’arte fondato a Campogalliano (Modena) nel 2007 e riconosciuto a livello internazionale in virtù della sperimentazione e innovazione in campo artistico. In dialogo su una serie di progetti e opere recenti dal 2020 al presente, affrontiamo una riflessione sui contributi di ricerca formulati da fuse* in supporto di un’alleanza tra arte e tecno-scienze.

fuse*, “Onirica ()”, 2023, installation view at Fondazione Alberto Peruzzo, Padua (IT), ph. Ugo Carmeni Studio, courtesy of fuse*
Sara Buoso: fuse* si è distinto per il carattere sperimentale della sua ricerca artistica. Quale identità contraddistingue fuse*? Quale visione?
Mattia Carretti: fuse* esiste dal 2007-2008. Fin dalla sua fondazione, Luca Camellini e io non neghiamo di aver riscontrato una certa difficoltà nel posizionarci. Forse perché proveniamo da un background scientifico (in chimica) o forse perché non ci piacciono le etichette, ma è qui che abbiamo riflettuto sull’altra faccia della medaglia: la nostra formazione ci ha portato a sperimentare con pratiche e linguaggi ibridi e trasversali, mantenendo l’istinto e la spontaneità come princìpi guida. Questo, inevitabilmente, ci ha avvicinato all’arte e alla creatività. Sentiamo che intrecciare questi linguaggi ci può permettere di creare o raccontare delle esperienze in un modo che risuona bene con ciò che siamo: curiosi e, come tutti gli esseri umani, dotati di identità diverse. Nei nostri progetti, tutte queste identità risuonano in un modo diverso, spaziando tra scienza, architettura, ingegneria, tecnologia e comunicazione. Con il progredire, qualcuno ha cominciato a leggere i progetti di fuse* in termini artistici e solo da allora abbiamo colto il potenziale di questo posizionamento. Ci occupiamo di teatro e di installazioni multimediali, sperimentando sia in termini di performatività sia, più di recente, presentando opere completamente analogiche realizzate attraverso processi computazionali che traggono elementi dalla scienza per suggerire una nuova percezione della realtà.

fuse*, “Onirica ()”, 2023, installation view at INOTA Festival, Várpalota (HU), courtesy of fuse*
fuse* è pioniere di un’arte nucleare, generativa, interattiva e immersiva. Innovativo è anche il vostro metodo di ricerca artistica…
Dalla fondazione dello studio, alcune cose che sono rimaste costanti, altre si sono evolute. Esistono però due macro-momenti. Io mi occupo dalla direzione artistica e il mio background mi porta ad applicare un metodo scientifico anche in relazione alla ricerca creativa: molte sono le affinità. L’idea di formulare un’ipotesi, provare e verificare le sue funzioni, eventualmente sbagliare, ripartire e creare, è questo il processo che perseguiamo finché non si trova l’equilibrio giusto seppur complesso tra i vari elementi, un’armonizzazione. È un metodo che, con le sue costanti, emerge soprattutto nella fase preliminare di prototipazione, di esplorazione di possibilità, di individuazione del racconto, dove nascono e si seminano gli aspetti di originalità e innovazione. Quando, in seguito, si entra in una fase di produzione, si adotta un metodo più waterfall, più strutturato e programmato, cercando di raggiungere livelli di qualità più alti possibile. Nello specifico, abbiamo codificato cosa intendiamo per qualità: è aderire ai principi di precisione, eleganza e significazione. L’eleganza è un elemento fondamentale: è la capacità di saper scegliere tra gli elementi e togliere il superfluo; eleganza è mantenere una coerenza narrativa in modo che chi si relaziona con l’opera possa raggiungere una determinata sensazione, uno stato emotivo o percepire determinate informazioni. Togliere e armonizzare sono esercizi complessi. Con significatività, infine, intendiamo come ogni progetto debba essere un’occasione di crescita – conseguita attraverso evoluzioni, sbagli, miglioramenti – per noi in quanto esseri umani. Questi sono elementi trasversali che fin dall’inizio, abbiamo voluto mettere in campo.

fuse*, “Sál”, 2025, installation view at National Taichung Theatre, Taichung (TW). ph. Matteo Torsani, courtesy of fuse*
Da un punto di vista concettuale e creativo, come emergono i vostri progetti?
Esistono due possibili modi con cui i progetti nascono. Uno deriva da una storia che si vuole raccontare, un’esperienza personale significativa che sento di voler condividere con le persone. Questa intenzione spesso si integra con progetti R&D in parallelo, che non hanno necessariamente uno scopo narrativo, ma spesso riguardano tecnologie che pensiamo possano avere un potenziale espressivo non ancora esplorato. Nel momento in cui c’è una storia significativa da raccontare, questi due aspetti si integrano a vicenda. Oppure la storia può arrivare dall’esterno. Per esempio, nel caso di Onirica (), 2023, siamo venuti a conoscenza della Banca dei Sogni dell’Università di Bologna mentre stavamo facendo ricerca su LLM e tecniche AI e abbiamo ritenuto che questi strumenti fossero perfetti per raccontare una storia sul mondo del sogno e dell’onirico. Nel caso della live-performance, Sál, 2021, invece, mi interessava raccontare il tema dell’impermanenza, soffermandomi sulle fasi di accompagnamento di persone nelle ultime fasi della loro vita. Trattare del tema dell’impermanenza rappresenta un rischio in un mondo occidentale perché si tocca qualcosa di molto profondo. Come sostiene Guidoalberto Bormolini, monaco di una comunità che si occupa dell’accompagnamento dei morenti in Toscana, trattare questa tematica è un tabù e, allo stesso tempo, una missione perché di fronte alla morte, esiste ancora il timore di mettere a nudo le proprie fragilità e debolezze. Il tema dell’impermanenza ci porta, inoltre, a riflettere sulla possibilità di dare valore al tempo in quanto limitato e questo ha indotto una serie di riflessioni per noi importanti e che abbiamo voluto trasmettere al pubblico. In contemporanea, Luca stava esplorando il tema dei buchi neri in collaborazione con un team di astrofisici dell’Università di KU Leuven in Belgio, ed è così che abbiamo pensato come l’immagine del buco nero – che si evolve ed è intrecciato – potesse essere una metafora perfetta per raccontare la relazione con qualcosa di sconosciuto, il limite dell’orizzonte degli eventi oltre il quale non sappiamo esattamente cosa succede, obbligandoci a interrogarci sui modi con cui ci relazioniamo noi con questa impermanenza. Il tema dell’accompagnamento ha ispirato la parte coreografica e narrativa di Sál, oltre che a determinare il processo interattivo: si tratta dell’esempio più alto di complessità mai raggiunto da fuse* in termini di armonizzazione. In entrambi questi progetti, volevamo accendere la curiosità, lo stupore, la meraviglia degli spettatori quale chiave di accesso per aprire dei canali comunicativi non ancora esplorati, indipendentemente dalla formazione o cultura intesa come punto di partenza.

fuse*, “Trust,” 2022, installation view at Artechouse, New York City (US), ph. Max Rykov, courtesy of fuse*
Che atteggiamento avete nei confronti della tecnologia?
Forse stupirà, ma siamo molto critici. Questa questione è emersa durante il processo di Onirica (). Volevamo applicare l’AI per simulare l’esperienza del sogno. Ma il nostro scopo non era celebrare le possibilità creativa dell’AI, ci interessava invece capirne le potenzialità, i rischi e i limiti. Eclatante è stato, infatti, pensare i bias estetici di queste tecnologie: nel riscontrare inizialmente difficoltà per la creazione un’immagine tanto interessante quanto non perfetta di un essere umano, poiché tutti i prompt risultano allenati sui bias e standard di Internet, abbiamo deciso di hackerare il sistema, ibridandolo con altre tecniche. Fin dal 2007-2008, abbiamo sperimentato con sistemi generativi. Ci interessa l’idea di stupire in termini di inafferrabilità e imprevedibilità. D’altronde, è questa una bella metafora della vita. Ci interessa capire come la tecnologia abbia un impatto sul nostro modo di relazionarci con noi stessi, con gli altri e con il mondo. La tecnologia è uno specchio interessante per conoscerci meglio come esseri umani. L’intelligenza artificiale è un’innovazione tecnologica che estende una capacità che si è sempre pensato potesse essere solo umana: quella di pensare. Questo è interessante ma è allo stesso tempo è un limite: cosa succede nel momento in cui deleghiamo il pensiero a una macchina? Questo aspetto porta con sé un rischio di intorpidimento e ci piacerebbe che i nostri lavori permettessero di ragionare anche su questi temi. Interessante è ciò che è accaduto durante il progetto in residenza realizzato per Dinamo Camp in Toscana, un programma in cui attraverso forme di terapia ricreativa, si vuole dare la possibilità a ragazzi con diversi tipi di patologie anche molto gravi, di vivere una settimana di camp estivo facendo attività di solito a loro precluse. fuse* è stato invitato per un programma di residenza che prevedeva la realizzazione di opere insieme ai ragazzi negli spazi della galleria e abbiamo così creato un workshop dove ai partecipanti veniva richiesto di portare un sogno, registrandolo con la propria voce per poi creare insieme una sorta di macchina dei sogni attraverso una telecamera che ha permesso di trasformare qualsiasi oggetto portato dai ragazzi in scene, gesti e immagini. Abbiamo progettato l’esperienza pensando a questo tipo di inclusività ed è stata potentissima, ma ancora più interessante è stato il commento che ho ricevuto successivamente in forma di lettera da un volontario che riportava un punto di vista estremamente interessante sull’AI: l’importanza di aver applicato un sistema statistico come quello della AI allenato sulla normalità in un contesto spesso considerato fuori dagli standard che la definiscono. Nel mondo e nella storia delle evoluzioni, sono sempre esistite persone che hanno iniziato a pensare in un modo fuori dall’ordinario. Lo è stato per Galileo Galilei. Quindi il rischio di delegare il pensiero alla macchina consiste proprio in questo: il rischio di perdere quel pensiero differente, divergente ed evolutivo dell’umanità. fuse* usa la tecnologia non per celebrare il progresso, ma per raccontare qualcosa e in questo senso, il nostro atteggiamento è critico.

fuse*, “Multiverse”, 2019, installation view at Artechouse, Washington DC (US), courtesy of fuse*
Ragionare su interattività e immersione ci porta a parlare della fruizione ed esperienza artistica. Il Covid ha rappresentato uno spartiacque nei vostri progetti?
Il 2020 doveva essere l’anno con il più alto numero di date. Avremmo dovuto presentare la live performance Dökk, 2017, che già dal 2019, aveva avuto successo e un consenso importante. Purtroppo, sappiamo bene come è andata. Ma, nonostante lo stop degli eventi, oltre a occuparci di rafforzare lo spirito sinergico dello studio, ci siamo dedicati alla produzione del progetto Van Gogh in Me, 2022, una performance audio-visiva generativa e immersiva. Ma, soprattutto, il Covid ci ha indotti a ripensare il tema dell’impermanenza: un evento così negativo, ci ha aperto nuove possibilità, obbligandoci a pensare formule di high performance, installazioni, opere fisiche e ad investire su tutti quei filoni di ricerca in diverse direzioni che hanno poi portato a Onirica () e a una serie di progetti che probabilmente non avremmo fatto se non ci fosse stato questo switch. Anche il tema dell’accompagnamento per l’opera Sál, 2021, è emerso durante il Covid. Nello stesso periodo, è nato anche il progetto Trust, 2020, toccando un tema altrettanto rilevante: la fiducia. La fiducia è un concetto che influisce enormemente sul nostro modo di vivere quotidiano e allora ci si interrogava sulla fiducia nei confronti della scienza e delle altre persone ai fini del bene collettivo, sulla fiducia verso il futuro. In questo senso, intendiamo anche lo scopo sociale dei nostri progetti.

fuse*, “Dökk”, 2023, installation view at Mutek MX c/o Teatro de la Ciudad, Mexico City (MX), ph. David Barajas, courtesy of fuse*
Vorresti parlarci delle ricerche in atto e dei progetti futuri?
Nella prossima mostra, presenteremo il nuovo progetto Mimicry. In questo caso, siamo partiti da un progetto R&D creando un immaginario di mostri ibridi tra piante e insetti, e avevamo iniziato a esplorare il tema del mimetismo. In quel momento mi stavo relazionando con Renato Bruni, direttore dell’Orto Botanico di Parma, a cui ho chiesto se volesse collaborare per approfondire e mettere a fuoco il racconto scientifico sul mimetismo e la metafora di mostri. Come sempre accade, si è aperto un nuovo mondo, un’area di ricerca che ci ha portato ad affrontare, anche grazie al contributo di Mariagrazia Portera, ricercatrice dell’Università di Firenze, i temi del femminismo e dell’eco filosofia, interrogandoci su come l’estetica degli insetti influenzi il nostro modo di relazionarci con loro anche in termini ecologici. Partendo quindi da un progetto R&D incentrato sul mimetismo, abbiamo coinvolto figure scientifiche e questo è diventato il nostro metodo. Ecco che attraverso queste alleanze tra tecno-scienze e arti, sia che si tratti del tema dell’impermanenza, dell’accompagnamento, dei buchi neri o del mimetismo, fuse* mira a suggerire una serie di metafore visive, supportate da una ricerca e un processo che arricchisce noi stessi come esseri umani.
Info:

È interessata agli aspetti Visivi, Verbali e Testuali che intercorrono nelle Arti Moderne Contemporanee. Da studi storico-artistici presso l’Università Cà Foscari, Venezia, si è specializzata nella didattica e pratica curatoriale, presso lo IED, Roma, e Christie’s Londra. L’ambito della sua attività di ricerca si concentra sul tema della Luce dagli anni ’50 alle manifestazioni emergenti, considerando ontologicamente aspetti artistici, fenomenologici e d’innovazione visuale.



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