Che cos’è l’identità? È una media fra l’immagine che abbiamo creato di noi stessi e quello che siamo veramente? È la proiezione di un vero sé, nascosto e inafferrabile… no, forse è solo un’illusione, anzi è una costruzione necessaria per sopravvivere nella società. Una società in cui non c’è più il tempo di pensare, il tempo scorre e se non tieni il passo rischi di rimanere indietro. Le identità cambiano e vengono scolpite da gusti, città, lingue abitudini e vestiti. La dimensione in cui prendono vita le opere di Sofia Lai è un infinito confronto tra il palese e l’inconscio con l’obiettivo di mettere in crisi questa netta divisione.
Corpi svuotati della loro persona prendono vita attraverso gesti, movimenti, ricordi. I vestiti scolpiscono la loro identità e riflettono l’esperienza personale di chi la guarda rievocando un archivio emotivo comune ma al tempo spesso privato e individuale. È come se per riflettere la propria immagine non fosse lo specchio il mezzo giusto perché rischierebbe solo di restituire un’illusione, di non mostrare ciò che risiede dietro la superficie. Sofia Lai è un’artista visiva e fashion stylist originaria di Firenze, che vive e lavora a Londra. Ha studiato alla Marangoni di Milano e alla Manchester Metropolitan Univesity. Ha collaborato con svariati magazine come artista e stylist, tra cui Numero Berlin, The Face Magazine, Tank Magazine, Vogue Italia e ID Italy. Nel 2024 Sofia Lai è stata selezionata da Nick Night per partecipare a una residenza artistica presso la Showstudio Gallery che ha dato luogo a una mostra intitolata “Interdependence”.
Enrico Boschi: Hai affermato che utilizzi la moda come strumento per la realizzazione delle tue sculture. Questo approccio mi fa pensare a una concezione postmediale dell’opera d’arte, con i media che vengono manipolati in funzione della materializzazione della tua idea.
Sofia Lai: Quando ho qualcosa in testa devo sempre di metterla in pratica: può andare a finire nei miei testi – io scrivo tantissimo – oppure nei disegni. Quanto alla scultura, utilizzo spesso dei ricordi. Forse proprio la mia formazione nella moda mi fa collegare specifici capi di vestiario a persone che li hanno indossati. Per esempio, penso a mia nonna che si metteva sempre la canottiera di lana sotto i vestiti o la cuffietta prima di andare a letto… certi elementi rappresentano per me una persona a livello emotivo, non in quanto capi di vestiario in sé. Quando studiavo moda mi interessava più la filosofia dietro il gesto che non gli abiti veri e propri. Vedevo questo approccio nei lavori di Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto, ma anche nelle prime collezioni di Miguel Adrover o in progetti come Mainstream Downstream di Poell. Le mie sculture forse non esisterebbero senza la relazione con la moda, ma non c’è solo quello. La moda mi è utile per mettere in concreto un pensiero.
Il tuo lavoro ruota attorno all’unione di immagini figurative e astratte provenienti dal mondo della moda. Che significato ha per te l’astrazione?
L’astrazione per me è inseparabile dal concetto di uncanny. Io la associo a un senso di distorsione della realtà che senza essere né positivo né negativo ti porta a riflettere. Ho sempre avuto la percezione dell’astratto come un malessere, un disagio per un pensiero che non si riesce ad afferrare. Tutti noi a volte tendiamo a essere incentrati su noi stessi, ci crediamo unici, crediamo di essere i soli a formulare certi pensieri al punto da preferire non condividerli con gli altri perché temiamo che nessuno possa capirci. In realtà sono pensieri comuni. Siamo tutti unici, ma alla fine proviamo tutti le stesse emozioni. Nonostante ciò questo può finire per condurre all’isolamento piuttosto che alla creazione di una comunità.
Il tessuto amplifica questa proprietà, la partecipazione?
Sì, leggevo un articolo che parlava del senso di aggregazione, della necessità di far parte di un gruppo ma allo stesso tempo la volontà di sentirti unico. Nelle mie sculture cerco di enfatizzare o di distruggere questo dualismo. Io vorrei lasciare il mio pubblico libero di associare le mie opere ai propri pensieri. Per chi guarda non occorre sapere che una certa mia creazione nasce dal ricordo di mia nonna.
La tua ultima mostra, Interdependence, è stata l’esito di una residenza artistica presso Showstudio di Nick Night.
Sì, per tre giorni ho lavorato a una serie di sculture nella Showstudio Gallery, mentre venivo ripresa da alcune telecamere. Questo succedeva mentre la galleria era aperta e i visitatori potevano entrare a vedere quello che stavo facendo. Era la prima volta che lavoravo alle sculture davanti a un pubblico di sconosciuti.
Ispirazione e outcome si incontrano per la prima volta.
Sulle prime ero un po’ in tensione al pensiero di mettere a nudo il processo di creazione delle mie opere, visto che fino a quel momento avevo sempre lavorato da sola nel mio studio esponendo i miei lavori solo dopo averli completati. Quando devi mostrare il modo in cui fai le cose entra in gioco la sindrome dell’impostore: mi intimoriva l’idea di mostrare le fasi della lavorazione. Ma poi la tensione si è allentata e si è creato un ambiente familiare, che ha eliminato qualunque disagio. Sono stati tre giorni molto intensi, alla fine non percepivo neppure più la stanchezza. È stato davvero interessante interagire con i visitatori in galleria, percepire le loro reazioni e ascoltare i loro commenti mentre lavoravo.
Secondo te i visitatori hanno influenzato il risultato?
Alcuni di loro sono finiti nelle sculture, mi hanno trasmesso qualcosa che ho poi trasformato in qualcosa di concreto. Quando mi metto al lavoro non ho mai un’idea del risultato finale: le opere prendono forma mentre le realizzo. Nick Night mi ha lasciato libertà totale e gli sono davvero grata per questo. Mi ha permesso di fare esattamente quello che volevo e con un forte coinvolgimento reciproco. Nick, tra l’altro, ha creato anche le mie sculture in 3D e dopo abbiamo dato loro dei nomi, cercando di collegare l’identità visiva a un nome di persona che poteva rappresentarla.
Che valore ha per te il lavoro di Tim Burton?
Mi piace molto. A livello estetico Burton non è il mio autore preferito, ma condivido appieno il suo pensiero. Descrive sempre situazioni in cui sta andando tutto malissimo, fino al punto di dire… o mi metto a ridere o la faccio finita! Anche i film dei fratelli Cohen esprimono questo concetto. Mi piace l’idea di tirare fuori qualcosa di satirico da situazioni grottesche: prendere in giro le cose che non riusciamo a sopportare, e alla fine affrontarle.
Hai dichiarato che fra i tuoi miti ci sono Louise Bourgeois e Michelangelo Pistoletto, ma che trovi ispirazione anche in persone sconosciute che ti permettono di fermarti un attimo e provare un’emozione.
Tengo traccia delle persone che mi lasciano un’emozione e mi costruisco un archivio. Trasferendomi a Londra ho provato una sorta di shock culturale: qui tutti vanno dritti per la loro strada, non si guardano mai. Il lato positivo è che in questa enorme massa di gente riesci a essere chi vuoi, anche se questo ti estrania dal mondo. Mentre stavo venendo qui ho fatto una foto a una bambina giapponese che rideva per gli sbuffi di vento sulla scala mobile della metropolitana. È stato un vero momento di gioia. In un certo senso attraverso le emozioni degli altri riesci ad apprezzare meglio le tue.
Come avviene l’archiviazione?
Non ho un vero e proprio metodo. Ho roba sparsa ovunque, mille quaderni dove scrivo e disegno. Ho l’ossessione di comprarne uno nuovo ogni settimana perché se sono in giro e non l’ho portato con me sono sicura che mi viene voglia di disegnare qualcosa. Sul computer ho innumerevoli cartelle con tantissime foto di persone. Scrivo e disegno da quando ho memoria. Conservo ancora cose scritte e disegnate quando ero una bambina o un’adolescente. È interessante vedere come cambia il modo in cui vedi le cose nelle diverse fasi della vita. Come ho già detto, sono molto concreta, ho sempre bisogno di mettere giù cosa penso e come mi sento.
La tua pratica artistica è caratterizzata dal costruire identità attraverso materiali tessili.
Ho album pieni di fotografie di sconosciuti: mi interessa rapportare le immagini alla percezione che ho di loro in relazione ai movimenti che fanno e agli abiti che indossano. Cerco di costruire una connessione tra i ricordi di persone a me care e le immagini di estranei che incrocio per strada. In questa sovrapposizione c’è allo stesso tempo distacco e affezione. I tessuti mi aiutano a enfatizzare un’espressione o un movimento di una persona che non conosco, interpretandoli in relazione alla mia esperienza o provando a immaginarmi nei loro panni. So di non conoscere veramente quella persona. Del resto sono pienamente consapevole dell’impossibilità di conoscere tutto. Per esempio, studiando moda ho approfondito l’aspetto dello styling e di fatto non so cucire. Però lo faccio lo stesso.
Nel tuo processo creativo c’è la pratica di guardare indietro? Di basarti su ciò che hai fatto in precedenza?
Sì, totalmente. Le mie opere sono un’autoanalisi alla massima potenza. Vorrei convivere in modo attivo con ciò che sono stata. In un certo senso si tratta di un lungo lavoro sullo stare bene con noi stessi.
Come avviene il processo di scultura?
Faccio il calco di gesso sul mio corpo, lo tolgo e lo lascio asciugare, poi comincio a modellarlo. Il punto di partenza è anche il movimento. Scatto molte foto di me stessa mentre compio determinati gesti, poi li riproduco nelle opere.
Che importanza ha per te il fatto che le tue opere possano essere di ispirazione per gli altri?
Nelle mie opere tendo a non mettere completamente a nudo i miei problemi (come l’insonnia, per esempio!), ma se qualcuno vedendole può sentirsi anche un minimo rassicurato e appagato, e magari può trasformare questa condivisione in ispirazione, è una cosa fantastica. Quando avevo quattordici anni mio padre lavorava di fianco a una galleria, e così mi è capitato tra le mani un catalogo di Louise Bourgeois. Leggendo che l’artista era solita annotare i suoi sogni in un diario – cosa che facevo anch’io abitualmente! – mi sono sentita rassicurata, legittimata a farlo perché un’artista autorevole e apprezzata l’aveva fatto prima di me. Se riuscissi a ottenere questo effetto anche solo su una persona, sarei la persona più felice del mondo.
Info:
Originario di Bologna, studia design della moda e arti multimediali allo IUAV di Venezia. Crede nella possibilità di sconfinamento tra le discipline e che l’arte possa avere un ruolo attivo nell’abbattere le disuguaglianze e unire le persone creando comunità.
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