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In dialogo con Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo

In dialogo con Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo

Abbiamo avuto il piacere di intervistare Lorenzo Balbi, dal 2017 alla guida della rete dei musei bolognesi dedicati al contemporaneo, e che comprende MAMbo, Villa delle Rose, Museo Morandi, Casa Morandi, Museo per la Memoria di Ustica e Residenza per artisti Sandra Natali.

Francesco Liggieri: Per far capire chi è senza riassumerlo io, vorrei che lei si descrivesse con il titolo di un’opera d’arte.
Lorenzo Balbi: Nel mio studio al MAMbo c’è un collage su carta non datato di Alighiero Boetti, forse una prova per la prima delle sue “quadrature” con 16 lettere colorate ordinate in un quadrato 4 x 4 a comporre, dall’alto in basso, da sinistra a destra, la scritta/titolo Ordine e Disordine. A un primo sguardo sembra una macchia di colore sconclusionata e le lettere sembrano disposte casualmente ma, una volta compreso l’ordine e la successione, rivela il proprio senso, ancorché enigmatico. È un’opera con cui letteralmente convivo, che vedo tutti i giorni e che penso mi possa in qualche modo descrivere. Talvolta sono o sembro disordinato e sconclusionato in quello che dico o faccio ma se si osserva con attenzione, se si trova il “codice” (e questo richiede indubbiamente uno sforzo personale), penso che anche le mie “lettere” possano apparire ordinate e acquistare un senso, incasellandosi a rivelare un significato, anche se questo paradossalmente lascia poi aperta e libera la propria interpretazione in un gioco senza fine in cui l’arrivo non è altro che un nuovo punto di partenza.

C’è una mostra, un progetto o un’iniziativa che vorrebbe realizzare ma non ha ancora organizzato all’interno del museo che dirige?
Ho l’enorme fortuna di avere avuto la possibilità, i fondi e gli spazi per realizzare numerosi progetti che avevo in mente e devo ammettere che in questi anni mi sono tolto tantissime soddisfazioni e ho esaudito moltissimi sogni e desideri che avevo nel cassetto. Ma, ovviamente, altrettanti sono i progetti che non sono riuscito a realizzare (nel 2021 nella Project room è stata allestita Hidden Displays 1975-2020. Progetti non realizzati a Bologna, una mostra interamente costituita da progetti non realizzati, alcuni dei quali erano anche proposti da me) e altrettanti quelli che ancora vorrei fare! Fa parte del mio lavoro, sarebbe preoccupante se non fosse così.

Cosa può fare un museo o una fondazione di arte contemporanea per la crescita del Paese?
Mi è capitato di associare l’idea di museo a quella di un organismo vivente capace di adattarsi e proporre nuovi possibili modelli evolutivi in contesti differenti. L’ho fatto soprattutto negli ultimi anni, in cui il MAMbo ha cercato di rispondere all’emergenza pandemica trasformando il proprio spazio espositivo in un gigantesco atelier condiviso di spazi di lavoro per artisti con il progetto del Nuovo Forno del Pane. Ecco, io credo che i musei possano funzionare come creatori di nuovi modelli applicabili in diversi ambiti e utili per la crescita della società.

Come ha influito la pandemia sul suo lavoro?
La pandemia non ha fatto altro che accelerare alcuni processi in atto e rendere necessaria e urgente una ridefinizione del ruolo del museo, del dispositivo-mostra e della “necessità” delle attività che svolgiamo (ricordiamo l’urgenza di distinguere tra attività necessarie – per le quali si poteva uscire di casa – e non necessarie?). Per il mio lavoro ha significato dover prendere decisioni radicali e varare progetti completamente diversi dal passato, pensare fuori dagli schemi, rivedere le relazioni con colleghi, artisti e professionisti, imparare a utilizzare nuovi modi di comunicazione e relazione, ripensare il lavoro con gli artisti e con i pubblici sulle mostre e sulle collezioni.

Il pubblico va formato o va intrattenuto all’interno di una mostra d’arte?
Entrambe le cose e nessuna delle due. Il pubblico (o meglio “i pubblici”) vanno lasciati liberi di interagire con le opere e le collezioni del museo, fornendo loro gli strumenti per comprendere, per reagire e magari anche per intrattenersi e divertirsi ma occorre rispettare l’individualità, la diversità e la volontà di coinvolgimento di ciascuno. In questo certamente influisce la mia formazione e il mio lavoro come mediatore culturale. Non è forzando i visitatori a divertirsi o a intrattenersi che otteniamo un loro interesse, ma fornendo loro le informazioni – “mediando” i contenuti, appunto – per superare l’“effetto soglia” che i musei e le opere di arte contemporanea inevitabilmente hanno e aiutandoli a mettersi in gioco, con il proprio vissuto, le proprie esperienze e le proprie idee, nella relazione con quello che viene loro proposto.

Esiste un luogo che lei identifica come l’inizio del suo percorso e del suo lavoro, nella memoria?
Se c’è un luogo che identifico come inizio del mio percorso professionale è una piccola stanza della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, a sinistra del banco della reception, al fondo del corridoio dopo le toilette. È una piccola stanza ma lì ho avuto la possibilità – per cui sarò sempre grato a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e a tutta la Fondazione – di iniziare a sperimentare con la curatela, a lavorare con gli artisti partecipando alla produzione delle loro opere e, addirittura, di vivere le mie prime esperienze di insegnamento all’interno del corso per curatori Campo. Su quel muro ho visto indicare per la prima volta il mio nome dopo la fatidica formula: “a cura di”.

Cosa trova (se c’è qualcosa) di interessante nelle cosiddette mostre “blockbuster”?
Ho sempre sostenuto che non ci sia un pubblico “di serie A” e un pubblico “di serie B” e che non sia giusto fare questa distinzione: tutti i pubblici dell’arte sono pubblici a cui rivolgersi e chiunque scelga di dedicare il proprio tempo andando a visitare una mostra, magari spostandosi dalla propria città – o anche semplicemente acquistando un biglietto – è un piccolo successo per tutti coloro che lavorano in questo settore. Quindi ben vengano le mostre blockbuster se aiutano a portare pubblico interessato all’arte e alla cultura nelle città, nei centri e nei musei. Quello su cui dobbiamo lavorare è educare i pubblici alla diversità delle proposte, a far emergere il carattere di ricerca e di sperimentazione dei musei, a far loro comprendere le diversità tra mostre blockbuster e mostre di ricerca inserite in un percorso di sperimentazione e di lavoro coerente con la natura e la storia dell’istituzione e del luogo in cui sono realizzate.

Cosa consiglierebbe a un giovane che volesse intraprendere il suo stesso percorso professionale?
Di mettere le mani in pasta. Studiare non basta. I percorsi di studio per curatori, sebbene assolutamente necessari, stanno producendo un grande numero di aspiranti curatori con una formazione molto simile ma, nella maggioranza dei casi, totalmente digiuni di esperienze dirette. In questo panorama la differenza si gioca quindi sul coinvolgimento attivo in iniziative culturali: la piccola mostra curata nello spazio no-profit improvvisato in un garage, la gestione di uno spazio-progetto in collettivo con altri giovani curatori e artisti finanziato auto-tassandosi, il blog su wordpress in cui cominciare a scrivere, intessere relazioni, recensire mostre. E ovviamente le esperienze all’estero, non solo per motivi di necessità linguistiche, fondamentali per mettersi alla prova in un contesto diverso e non-protetto.

Se potesse scegliere un personaggio storico o di fantasia da inserire nel suo team di lavoro chi sceglierebbe?
Bruno Munari per il suo modo unico di guardare le cose da prospettive sempre nuove e diverse -spingendo tutti a farlo – e per il suo modo di pensare costantemente fuori dagli schemi, offrendo un prezioso nutrimento alla nostra parte più creativa. I suoi libri – in particolare il Codice Ovvio – sono per me fonte costante di ispirazione. Una persona come lui sarebbe fantastica all’interno di un team di lavoro, riuscirebbe a stimolare le capacità progettuali in qualsiasi campo di applicazione, proponendo visioni non scontate e sapendo reagire ai fatti, alle situazioni e anche agli incidenti con ingegno e ironia, trovando soluzioni nuove e metodi originali.

Se non fosse il direttore del MAMbo, cosa le piacerebbe fare?
Il cuoco. Mi è sempre piaciuto cucinare, sono appassionato di buon cibo e buon vino e ho lavorato assiduamente come aiuto cuoco durante i miei anni da studente universitario per una ditta di catering vicino a Torino. Se non facessi il curatore mi piacerebbe cucinare, magari anche facendone un lavoro. A ben pensarci ci sono diverse analogie tra le due professioni: aver a che fare con un pubblico, dover ricercare degli ingredienti interessanti e mischiarli in modo che possano piacere, interessare, suscitare emozioni sebbene rimanendo ben identificabili.

Può raccontarci come nascono le scelte espositive all’interno del MAMbo?
Non c’è un percorso fisso o univoco. La composizione del programma espositivo di un museo come il MAMbo è il frutto di un continuo lavoro di ricerca, di sperimentazione, di valorizzazione di progettualità interne o di impulsi dall’esterno. Il museo deve essere un’antenna capace di captare le urgenze degli artisti e della contemporaneità e di tradurle in progettualità e mostre avendo la flessibilità di cambiare, di ripensarsi, di modificarsi. Il direttore artistico deve a mio parere agire come connettore e ordinatore di queste pulsioni, seguendo una propria precisa visione ma aprendosi alle varie influenze e garantendo sempre che la propria programmazione si innesti in un percorso museale rispettoso dell’identità dell’istituzione in cui lavora. Nel caso del MAMbo i progetti che compongono il programma espositivo, benché tutti appartenenti a questa direzione, devono dimostrare relazione o attinenza a quelli che definisco i tre “pilastri identitari” dell’istituzione: un approccio sperimentale, soprattutto nella valorizzazione dei nuovi media (non dimentichiamoci che la GAM di Bologna fu il primo museo pubblico in Italia a dedicare mostre e spazi alla performance, alla street art e al video già negli anni ’70); un’attenzione particolare all’arte italiana, soprattutto delle nuove generazioni (nel rispetto della storia del museo che è stato palcoscenico privilegiato per gli artisti italiani di intere generazioni, con rassegne come Spazio Aperto e la prima sezione della collezione permanente in un museo pubblico dedicata alla giovane arte italiana); e, in ultimo ma non per importanza, un carattere partecipativo e di coinvolgimento dei pubblici, anche in relazione alla didattica museale e alla mediazione (la GAM fu uno dei primi musei in Italia a dotarsi di un dipartimento educativo, attivo dai primi anni Novanta, e ancora oggi l’attività didattica del MAMbo è concepita non solo come offerta ma come luogo di sperimentazione e di sviluppo di nuove strategie educative).

Info:

www.mambo-bologna.org

Lorenzo BalbiLorenzo Balbi, direttore del MAMbo, photo Ornella De Carlo, courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

MAMbo, external view, photo Valentina Cafarotti and Federico Landi, courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

MAMbo, permanent collection, photo Ornella De Carlo, courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

Sean Scully, A Wound in a Dance with Love, exhibition view at MAMbo, courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

NO, NEON, NO CRY, exhibition view at MAMbo Project room, courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

Hidden Displays 1975-2020. Progetti non realizzati a Bologna, exhibition view at MAMbo Project room, courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo

Elisa Caldana and Aki Nagasaka, Times of Crisis, installation view at Villa delle Rose, Bologna (2021), photo Giorgio Bianchi, courtesy Settore Musei Civici Bologna | MAMbo


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