Autoaffermazione, libertà, sfrontatezza e seduzione, tutte le sfumature di una grande protagonista del secolo breve, raccontate in una delle più complete retrospettive mai dedicate all’inafferrabile Leonor Fini. Fino al 22 giugno 2025, Io sono Leonor Fini, a cura di Tere Arcq e Carlos Martín, riunisce oltre cento tra dipinti, disegni, fotografie, costumi e video, nelle sontuose sale di Palazzo Reale, a Milano: un percorso espositivo incantevole e immersivo, prodotto insieme a MondoMostre, con il fondamentale contributo di Leonor Fini Estate. Magnetica e ribelle, artista dall’immaginario visivo estremamente colto e dai mille livelli di lettura, – ora vòlti alla mitologia classica, ora ai processi alchemici d’ispirazione medievale; in molte occasioni al perturbante freudiano, ma più d’ogni altra cosa alla dimensione onirica. Il titolo della mostra prende spunto da una citazione della stessa Fini: «Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccia, rispondo: Io sono».

Leonor Fini, “Le Radeau”, 1940-43. Oil on canvas, 73 x 92 cm. Cantone Ticino. Fondazione Monte Verità. Donazione Eduard von der Heydt ©Leonor Fini Estate, Paris
Una donna dai mille volti e dai mille veli, come quelli degli abiti e delle maschere che confezionava da sé, avvezza com’era al travestimento, sin da piccola, quando la madre Malvina la vestiva alla marinara, con l’obiettivo di preservarla dalle attenzioni morbose del padre, che tentò più volte di rapirla. Nata a Buenos Aires il 30 agosto del 1907, con l’ascendente in Leone e Giove nel segno, Eleonora Elena Maria Fini trascorse la sua infanzia a Trieste, al sicuro del ramo materno, dove crebbe immersa in un ambiente raffinato, in seno a una comunità di donne dal carattere forte. La grande biblioteca di famiglia e la frequentazione di intellettuali come Umberto Saba alimentarono la sua immaginazione e forgiarono una creatura sensibile e visionaria. A contatto con l’eclettismo mitteleuropeo triestino, Leonor sviluppò un’indole vorace e curiosa, danzando tra scrittori e artisti come un elegante merlo al crepuscolo, alla ricerca di primizie tra i rovi. Il suo sguardo presto si trasformò nella vista aguzza e tagliente di un rapace notturno, non a caso fu definita da Elsa Morante «il mio bel gufo incantato» animale sacro alla dea Atena, attributo per antonomasia di intelligenza e carisma, e che infatti ritrasse al suo fianco in diverse opere.

Da sinistra: Leonor Fini, “Ea”, 1978. Oil on canvas, 116 x 81 cm. Private Collection ©Leonor Fini Estate, Paris. A destra: Leonor Fini, “Autoportrait à l’hibou”, 1936. Oil on canvas, 63,8 x 51,4 cm. Private Collection ©Leonor Fini Estate, Paris.
Un tratto distintivo della sua visione artistica, fedele a tutto il suo vissuto di bambina, è la rappresentazione di un mondo popolato da donne, amazzoni, sfingi, sirene, dee, incantatrici e streghe, spesso coinvolte in misteriosi riti arcaici, oppure ritratte chine su corpi di uomini addormentati, inermi e androgini. Il suo immaginario – come testimoniano i numerosi ritratti dei grandi amori, Stanislao Lepri e Constantin Jelenski – era affascinato dalla vulnerabilità del corpo maschile, spesso ritratto nudo, alla maniera classica, senza alcun pudore, talvolta secondo l’iconografia dell’Adone morente, talvolta alla maniera dei sarcofagi etruschi o degli Ermafroditi romani ripresi in epoca moderna: in ogni caso attraverso uno sguardo analitico, scevro da qualsiasi malizia. Una capacità, quella di Leonor, forse affinata nel tempo, grazie a quella primissima suggestione infantile, ricevuta come un’epifania, quando a soli dodici anni andava a contemplare i morti all’obitorio di Trieste. «C’era anche l’obitorio ‘deposito’, dove si mettevano coloro che avevano avuto un incidente, i morti in attesa; questa sala era vicina all’ospedale e chiusa al pubblico, ma il guardiano, che aveva un debole per me, mi lasciava entrare. Il primo uomo nudo che ho visto era molto bello, lungo, magro […] “Era un gitano” – disse il vecchio – “te l’ho mostrato perché era bello e tutti i bambini devono vedere ciò che è bello”».

Leonor Fini, “Stryges Amaouri”, 1947. Oil on canvas, 45,8 x 55 cm. Private Collection ©Leonor Fini Estate, Paris
In Stryges Amaouri (1947), per esempio – molti anni più tardi – è chiaramente reiterata questa memoria, attraverso la composizione dell’elemento maschile, disteso in primo piano, coperto dall’edera; alle sue spalle una misteriosa presenza, e ancor più dietro, seminascosto dal canneto, il volto di una donna, quasi certamente un autoritratto in una dimensione scenica. La donna-sfinge del tutto vigile che, da un lato veglia sul corpo in atteggiamento materno, ma allo stesso tempo suggerisce un desiderio sessuale inespresso e, rivolgendo lo sguardo fuori dalla tela, richiama la nostra attenzione in modo piuttosto allusivo. È più che esplicito, è quasi voyeuristico, eppure in maniera del tutto naturale e senza clamore, l’artista ribalta il concetto di male gaze (sguardo maschile) che per secoli in pittura, e poi in fotografia e infine al cinema, aveva proposto rappresentazioni trite e ritrite di donne-oggetto. Leonor non chiede, prende. Risulta molto chiaro come il suo atteggiamento nei confronti della propria sessualità e dell’elemento maschile sia stato a tutti gli effetti quello di una donna dei nostri tempi che forse, a suo discapito, la fece risultare troppo emancipata.

Da sinistra: Leonor Fini, “Sphinx (orange)”, 1973. Mixed media on arches mounted on canvas, 76,2 x 57,2 cm. Private Collection ©Leonor Fini Estate, Paris. A destra: Leonor Fini, “Dans la tour (Autoportrait avec Constantin Jelenski)”, 1952. Oil on canvas, 90,8 x 64,8 cm. Private Collection ©Leonor Fini Estate, Paris
Donne che si trasformano in creature mitologiche, uomini ipnotizzati e resi inermi dal potere magnetico del femminile, animali totemici che osservano sullo sfondo, silenziosi. Il corpo e l’identità si sfaldano e si ricompongono in un continuo processo di ridefinizione, rendendo l’opera di Fini più attuale che mai, in un’epoca che s’interroga di continuo sui concetti di genere, queerness e ruolo sociale. Come avrebbe mai potuto un’intelligenza simile sottostare alle ristrette categorie imposte dal patriarcato dell’epoca? Alla fine degli anni Venti, Leonor si trasferisce nel capoluogo lombardo, dove espone in alcune collettive alla Galleria Milano e, in occasione della V Triennale, nel 1933, realizza lo splendido mosaico Cavalcata delle Amazzoni su cartone di Achille Funi, ancora visibile nell’atrio dell’edificio del Palazzo dell’Arte. Tuttavia, il soggiorno milanese dura ben poco e, con l’influenza di Filippo de Pisis, arriva presto il fortunato trasferimento a Parigi, dove l’artista trascorrerà il periodo più lungo e florido della sua vita, che la consacrerà finalmente alla fama internazionale, fino alla scomparsa, nel 1996.

Leonor Fini, “Rasch, Rasch, Rasch, meine Puppen Warten!”, 1975. Oil on canvas, 113,8 x 145,5 cm. Private Collection ©Leonor Fini Estate, Paris
In ambiente parigino, verso gli anni Trenta, Max Ernst la definì “La furia italiana”, e nonostante i numerosi contatti con Man Ray, Dora Maar, Salvador Dalì e André Breton, Fini non volle mai essere definita “Surrealista”, anzi, non volle mai essere definita neppure “donna artista”. Indipendente, anticonvenzionale e dalla sensualità disarmante, l’artista visse seguendo le proprie regole e sfidando le norme del suo tempo. La sua casa a Parigi fu un crocevia di intellettuali e artisti, uno spazio di libertà assoluta dove il confine tra arti performative e quotidianità si dissolveva. La sua identità di creatura magica se l’era cucita addosso come un incantevole abito su misura, per questo non accettò mai alcuna etichetta. A Parigi, più tardi, Leonor incontrò Christian Dior, che le presentò la stilista Elsa Schiaparelli, celebre per il suo stile eccentrico e all’avanguardia, e per le sue collaborazioni con i Surrealisti. Da questo incontro nacque una solida amicizia, proficua e creativa: Elsa la vestì con abiti esagerati, che contribuirono alla memorabilità della sua immagine, Leonor, dal canto suo, disegnò l’iconica boccetta di profumo, ispirata al busto di Mae West.

Leonor Fini, “Les Baigneuses II / Trois filles dans l’eau”, 1972. Oil on canvas, 72,4 x 115,6 cm.
Private Collection ©Leonor Fini Estate, Paris
Anche la componente teatrale del suo lavoro ebbe un ruolo centrale nella ricerca artistica: il concetto stesso di metamorfosi così ampiamente approfondito attraverso l’ossessiva riproduzione delle sfingi, costituì un aspetto fondamentale persino nelle scelte di vita. La naturale inclinazione al travestimento e all’interpretazione di ruoli, trasformò le vacanze al mare in occasioni ludiche per mettere in scena improvvisazioni teatrali curate nei minimi dettagli. I legami intrecciati con il mondo del cinema, poi, le diedero l’occasione di realizzare splendidi costumi per Luchino Visconti, mentre il suo talento di scrittrice ispirò Fellini nella prima stesura de La dolce vita. Una profonda affinità intellettuale la legò alle anime tormentate di Pier Paolo Pasolini e di Anna Magnani, con la quale condivise anche la passione per i gatti persiani.

Leonor Fini, Parigi, 1965. Courtesy ©Leonor Fini Estate, Paris
La grande retrospettiva di Palazzo Reale approfondisce con cura ogni singolo aspetto dell’appassionante vita di questa grande artista. Il percorso espositivo, sapientemente allestito da PANSTUDIO, si snoda attraverso nove sezioni tematiche che immergono il visitatore nell’immaginario poliedrico di Fini, fatto di colori intensi, sguardi ipnotici e simbolismi arcani. Dai ritratti seducenti ai disegni erotici, dalle scenografie teatrali alle illustrazioni per edizioni rare, ciascuna opera è una porta segreta su un mondo in cui il reale e l’onirico si fondono in un gioco di specchi. «Poi viene Leonor. Le finestre diventano luce, le ragnatele tende preziose di nuvole e stelle, i rami secchi doppieri accesi, e la sera una grande serata; perché Leonor […] unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà» (Elsa Morante, da L’amata. Lettere di e a Elsa Morante).
Info:
Io sono Leonor Fini
A cura di Tere Arcq e Carlos Martín
Palazzo Reale, Piazza del Duomo, 12, Milano
26/02 – 22/06/2025
www.palazzorealemilano.it

Giulia Russo è autrice e assistente editoriale digital per Juliet, con cui collabora dal 2017. Più di recente è stata contributing editor su temi culturali per diverse riviste, con approfondimenti critici, dedicati ad artisti emergenti e alle nuove frontiere della contemporaneità. Laureata in Storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma, si specializza in Visual Cultures e pratiche curatoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera. Di base a Milano, con qualche fugace incursione tiberina, adora ascoltare storie che ogni tanto riscrive.
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