«La mobilità è a tutti gli effetti una malattia mortale ed è del tutto naturale che la gente tratti i malati di mobilità o di cassa integrazione allo stesso modo di quelli di epatite o di tubercolosi. La mobilità non è contagiosa, ma tutti si comportano come se lo fosse. […] Nella malattia altrui si esplicita la consapevolezza del nostro essere sani nella disgrazia e niente ci fa apprezzare la vita come andare a un funerale. E ora iniziamo, perché mio padre non ha mai mancato un funerale, almeno da quando è andato in pensione». Questo incipit, tratto dal romanzo “Un mondo meraviglioso” di Vitaliano Trevisan (Sandrigo, 1960 – Crespadoro, 2022), introduce la versione di “Scandisk”, opera drammaturgica dello stesso autore che il giovane regista Jacopo Squizzato (Verona, 1990), sta portando in un lungo tour nazionale. Dopo un debutto al Teatro delle Moline di Bologna lo scorso anno, fino al 13 aprile la piéce sarà in scena al Teatro delle Passioni di Modena, per poi proseguire al Teatro Studio di Bolzano (16 aprile). Il testo è il primo della trilogia teatrale “Wordstar(s)”, composta fra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio dallo scrittore, sceneggiatore, attore, drammaturgo e regista teatrale vicentino, una delle voci più interessanti e indipendenti del panorama letterario italiano contemporaneo, ancora poco nota al grande pubblico nonostante i numerosi riconoscimenti e apparizioni mediatiche.

“Scandisk” di Vitaliano Trevisan, regia di Jacopo Squizzato, ph. Vladimir Bertozzi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
L’autore, morto per un’overdose di psicofarmaci autoindotta, ha iniziato a dedicarsi a quella che lui stesso definiva «la malattia della scrittura» alla soglia dei quarant’anni, dopo un lungo periodo caratterizzato da una deliberata instabilità professionale, in cui prova a cimentarsi con svariati mestieri, come l’impiegato, il designer di arredamento in franchising, l’operaio e il lattoniere. Al centro della sua produzione artistica, l’ossessione per l’ethos del lavoro imperante nella provincia vicentina dove è nato e cresciuto, un lembo del Veneto tra gli anni ‘80 e ‘90 ancora economicamente depresso, ma già interessato dalle radicali trasformazioni economico-sociali che ora sono deflagrate in termini di rapido arricchimento e disumanizzazione della produzione. Basandosi sulla propria esperienza diretta, Trevisan ritrae la provincia veneta delle piccole e medie imprese raccontando storie vere con una lucida e tagliente definizione del dettaglio che si addentra nel reale con una fiera concretezza nel recepirne gli aspetti più prosaici. Attraverso un linguaggio crudo se non deliberatamente scurrile, l’autore nella sua prosa fa vivere situazioni del tutto immanenti, dove un’aderenza integralista all’ordinarietà degli accadimenti e delle conversazioni diventa un registro letterario o teatrale spiazzante nella sua nudità. Il sottile scarto tra verismo e finzione scenica innescato dalla loro imperfetta coincidenza fa slittare la concentrazione dall’individualità dei singoli personaggi – di regola lavoratori addetti a mansioni manuali o di fatica – alle più ampie questioni implicate dalla loro condizione, come la mancanza di norme di sicurezza, la frustrazione per regole di comportamento percepite come immotivata coercizione o l’antagonismo di classe. Inoltre, dalla mordacità delle battute e dagli ancora più eloquenti silenzi, emerge una condizione esistenziale in bilico tra filosofica accettazione dell’esistente e iperbolica follia, che per l’autore, come per i suoi personaggi, è l’anima di una provincialità assurta a mondo.

“Scandisk” di Vitaliano Trevisan, regia di Jacopo Squizzato, ph. Vladimir Bertozzi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
A differenza di quanto farebbe supporre il discorso fuori campo iniziale, la registrazione di una lettura pubblica di Trevisan conservata nell’archivio storico della CGIL di Bologna, lo spettacolo di Squizzato, in scena assieme a Mauro Bernardi e Beppe Casales, si focalizza nella restituzione della totale condivisione da parte dello scrittore dell’orizzonte ontologico dei suoi personaggi, nella sua contingenza pericolosamente affacciato sul mistero del senso della vita con cui ci confrontiamo tutti. Nessuno, per Trevisan, sembra essere più vicino a quel mistero dei lavoratori che talvolta, come lui stesso quando installava le grondaie sui tetti dei cantieri edili, si trovano a mettere quasi con incoscienza le loro vite nelle mani dei colleghi, in circostanze dove il rischio della mansione azzera ogni possibilità di divagazione mentale oziosa. Anche il titolo “Scandisk”, nome del programma informatico che scansiona l’hard disk del computer per controllare i file e i cluster danneggiati, rimarca lo stretto legame tra la scrittura del drammaturgo vicentino e la sua esperienza personale resa universale dalla dimensione del ricordo, che costituisce – nelle parole di Squizzato – «un disco rigido della periferia diffusa». Così, l’habitat invalicabile della classe operaia (in questo caso incarnata in tre magazzinieri di una fabbrica di cuscinetti a sfera) è ricreato dalla scenografia, una sorta di bunker di cemento. Questo cielo artificiale plumbeo, pur sovrastando e contenendo gli attori, al tempo stesso si apre sull’infinito inconoscibile di un’oasi naturale, idealmente collocata nella platea buia dove risiede il pubblico. Da lì proviene il cinguettio degli uccelli migratori a cui è concesso di viaggiare da un emisfero all’altro del pianeta e lì vengono inghiottiti gli oggetti immaginari che i protagonisti lanciano di tanto in tanto oltre il palcoscenico accendendo fulminee traiettorie luminose.

“Scandisk” di Vitaliano Trevisan, regia di Jacopo Squizzato, ph. Vladimir Bertozzi, courtesy ERT – Emilia Romagna Teatro
L’azione scenica è ridotta all’osso: scandita dalle sirene della fabbrica, è composta da frammentarie sequenze dove gli attori, movimentando cataste di pallet o ritagliandosi una pausa tra un turno e l’altro, si sbeffeggiano a vicenda, a tratti esprimendo malinconia per la desolazione di un paesaggio ormai asservito alla produttività umana o rabbia per l’alienazione indotta dalla crescente standardizzazione del lavoro. La labile traccia narrativa è l’assurda escogitazione da parte dei tre di una rapina che permetterebbe loro di essere liberi di migrare al caldo come gli uccelli dell’oasi confinante con il magazzino, un pretesto per scandagliare con livida comicità una quotidianità difficile da verbalizzare nelle sue pieghe più autentiche attraverso le espressioni, i tic, i desideri e i ragionamenti dei personaggi. Molto bravi gli interpreti nel dosare una comicità che, pur essendo lessicalmente sguaiata e infarcita di luoghi comuni, non sconfina mai nella caricatura ed è un efficace strumento per calare gli spettatori nel vivo di una contraddittoria anima di classe (forse oggi un po’ desueta per il dibattito culturale, una scelta conveniente dal punto di vista politico, secondo una dichiarazione di Trevisan in una delle sue ultime interviste[1]) in cui convivono pulsioni all’assoluto e meschinità sfrontate. Un dualismo analogo si può riscontrare nella poetica di Trevisan, la cui doppia identità di scrittore-operaio è una costante presenza sottotraccia, richiamata nella partitura sonora dello spettacolo dall’alternarsi, in alcuni momenti senza dialogo, del ticchettio amplificato dei tasti battuti sulla tastiera e di rumori da impianto industriale.
Info:
www.modena.emiliaromagnateatro.com
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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