Jesse Darling. No Medals No Ribbons

“No Medals No Ribbons” è la retrospettiva attualmente in corso presso gli spazi del Modern Art Oxford dell’artista britannica Jesse Darling (1981), volta a presentare – tramite un ampio e forte assetto espositivo – i risultati delle ricerche e del lavoro relativi agli ultimi dieci anni.

Per l’occasione, ho inoltre avuto l’opportunità di approfondire le ampie tematiche affrontate dalla mostra direttamente con Amy Budd, senior curator presso l’istituzione museale. Come spiegato sin da subito, la scelta di dedicare a Darling un simile spazio è da ricercarsi, essenzialmente, nella volontà di riconoscere l’importanza e il carattere innovativo di una pratica che vede nel medium scultoreo (ma non solo) un linguaggio fondamentale per un’indagine del tutto articolata attorno a tematiche a oggi impellenti.

Nonostante gli intenti celebrativi per un lavoro estremamente strutturato, solido, intimo ma al tempo stesso universale – solitamente impliciti nel concetto di retrospettiva – “No Medals No Ribbons” (a partire dal titolo) vuole mettere in chiaro la necessità dell’artista di discostarsi quanto più possibile da un simile approccio. Come raccontato, il titolo presenta dei rimandi con la storia di un suo lontano parente che, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu impegnato nella creazione di protesi artificiali per i suoi commilitoni a partire da materiali di scarto. Al termine del conflitto, tuttavia, invece che accettare il riconoscimento dovuto per l’impegno ed eroicità dei suoi gesti ha preferito rifiutare qualsiasi atto celebrativo in quanto, implicitamente, non avrebbe fatto altro che rievocare le tragedie appena trascorse. Un punto di partenza che, già in parte, definisce le linee tematiche e concettuali di una retrospettiva all’interno della quale si condensa una stratificazione di significati i cui capisaldi possono essere identificati nei concetti di vulnerabilità e caducità di qualsiasi sistema di potere, sviscerati da una prospettiva in cui la materia autobiografica e un carattere di universalità si combinano tra loro in maniera inscindibile. Il tutto andando inoltre a porre un accento del tutto marcato sulla molteplicità di materiali e medium utilizzati.

Progresso e anti-modernità. Monumentalità e decadenza. Memento mori e vulnerabilità. Queste sono probabilmente le linee tematiche che più di tutte emergono a partire dalla prima sala, in cui lo sguardo non può che perdersi lungo le linee contorte e instabili di “Gravity Road” (2020). Da un punto di vista letterale, l’imponente installazione di acciaio rimanda anzitutto alla storia dietro la nascita delle moderne montagne russe, iniziata nel 1827 quale strumento per il trasporto del carbone, per poi sviluppare, dal 1850, anche una funzionalità legata al divertimento delle classi operaie. In un’ottica più ampia invece, ecco che questo sinuoso intreccio – agli occhi di Darling quasi un fossile di mammut – viene eretto a vero e proprio monumento attestante quel senso di inevitabile caduta dietro tutti i sistemi, mitologie e certezze dal sapore quasi dogmatico create dalla modernità. Il groviglio è distorto, disfunzionale, non porta a nulla se non a una contemplazione remissiva e presa di coscienza che dietro quell’idea di industrializzazione, progresso e velocità non si nascondono altro che storie di sfruttamento sociale ed economico che da sempre hanno fatto (e faranno?) da contraltare all’idea di “avanzamento”.

Ai piedi dell’imponente struttura sono invece collocate pesanti sacchi di sabbia – recanti la dicitura “Deutsches Bundesbank” – terreno improbabile da cui sembrano crescere, in una maniera dai tratti ironici e surreali, margherite e crisantemi. Come dichiarato dalla stessa Darling: “[…] So I took a day off, I walked an hour and a half along the river to the city limit to the big box garden center and bought some flowers for the sandbags placed around the “legs” of installation […] You could still see the animals, but it felt less cartoonish, much more like a relic. Like how in natural history museums they don’t blare the lights because it decays the old things. It felt sort of somber.”[1]. Come si intuisce, è dunque mediante il gesto istintivo, randomico (sia i sacchi e sia i fiori non hanno definite accezioni metaforiche) che l’artista va a ricercare quel senso di completamento di un lavoro dalla portata simbolica ben definita, la cui plasticità e durezza sembrano, all’apparenza, essere smorzati dall’impiego di un elemento naturale dai connotati estetici sostanzialmente agli antipodi del corpo principale, nonché capace di smorzare la freddezza apatica del colosso in acciaio con una nuova carica vitale. A delinearsi è pertanto uno scenario quasi distopico, fortemente accentuato dalla presenza fantasmica ma totalizzante di “Planes” (2019), consistente in una moltitudine di aeroplanini in alluminio cosparsi sul pavimento. In tal caso, l’intento dell’artista è quello di innescare una riflessione attorno ai concetti di viaggio, migrazione e relativo impatto ambientale, andando nuovamente a sovvertire la logica di funzionalità tramite l’impiego di un materiale (l’alluminio) che annulla l’accezione ludica dell’oggetto per fare emergere, invece, doverosi rimandi su come affrontare, oggi, il concetto di spostamento in relazione alla sempre più limitata disponibilità di risorse naturali. Nel complesso, l’opera pare presentarsi come una riuscita commistione tra un approccio concettuale e partecipativo con echi di Felix Gonzalez-Torres e volontà di coinvolgimento alla Rirkrit Tiravanija. Per di più, l’opera offre anche un significativo spunto di riflessione attorno all’idea di resilienza in quanto gli aeroplanini, non possono volare secondo quanto prestabilito o come si vorrebbe ma richiedono invece una diversa modalità di approccio. L’intento di critica tende poi a conciliarsi con un’attitudine dai connotati più ironici, come messo in risalto da “Embarrassed Billboard 1 & Embarrassed Billboard 2” (2016/2022), pannelli che, “stanchi e imbarazzati”, mostrano soltanto il proprio retro in netta disintegrazione del messaggio pubblicitario spogliato della propria funzione di stimolo consumistico.

Proseguendo, si ha sempre più l’impressione che il percorso si incentri attorno all’impiego di ready made “rettificati”, dati non dalla semplice decontestualizzazione di oggetti d’uso comune quanto invece da una loro continua rielaborazione e conferimento di nuove connessioni e significati. In particolare, all’interno della sala adiacente, Darling va ad accentuare questo aspetto, espediente per un’indagine sulla dipendenza del corpo moderno dai miti quali medicine o cosmetici. Una tematica dai connotati universali raggiunta impiegando come base di partenza l’esperienza autobiografica. Ed è proprio questa sua abilità di generare l’universale dal particolare un’ulteriore chiave di lettura del suo lavoro. Colpisce la profonda intimità di opere come “Composition of objects that keep things [a] live plus constellation Orion in spilled lentils on a dead refrigerator (towards non-macho sculpture practice)” (2017) o “Prophylactics Charms & Placebos” (2017), che rimandano a farmaci realmente impiegati dall’artista e soprattutto “Crawling Cane 1 & 2” (2017/2022), sculture ottenute a partire da stampelle di sostegno che – distorte – si presentano cariche sia di un senso di fragilità e resistenza (quale rimando a un periodo di difficoltà attraversato dall’artista) e sia, in un’ottica più ampia, come vere e proprie icone in grado di ribadire l’essenzialità dei servizi di assistenza sanitaria. Ma ecco che quest’idea di “dipendenza” del corpo viene affrontata anche secondo una prospettiva maggiormente politica e carnale come testimoniato da “Liberty Torch 1 (Ace of Wands Series)” (2016/2022), in cui mani fuoriuscenti dalle pareti sorreggono, imperanti e orgogliose, degli Hitachi Magic Wand, il sex toy più venduto nella storia. L’elemento di corporeità è inoltre brillantemente indagato tramite l’impiego della plastica nell’opera “The Deputation” (2017/2022), consistente in buste stese e fissate a dei supporti sottili. Il concetto di fondo è appunto quello di soffermarsi su quanto un materiale di questo tipo, assieme anche al silicone e all’acciaio, abbiano contribuito e contribuiscano alla definizione del singolo individuo e della collettività, simulacri dunque delle più attuali narrative di capitalismo, colonialismo e sfruttamento. Infine, questa dimensione prettamente terrena di corpo e mortalità è poi presentata anche in un’accezione sacrale come testimoniato dalla sala vicina adibita a cappella votiva – a cui fanno da guardia delle sfingi simbolo dello schiacciante potere imperiale – in cui si susseguono opere rimandanti a un’aurea fortemente spirituale.

Se nei primi due spazi espostivi a emergere più nettamente sono tematiche legate ai concetti di caducità e corporeità, ecco che l’ultima sala (“crowded room” a detta di Amy Budd) ospita un nucleo di lavori capaci di far coesistere simili ambiti di ricerca. Ritroviamo, infatti, sia strutture in acciaio e sia metalliche o realizzate tramite stampelle e oggetti di sostegno rimandanti a forme umanoidi e animalesche con cui si ribadisce con forza come il carattere di mortalità e vulnerabilità rappresenti il minimo comun denominatore di qualsiasi entità costituente il reale. Un’estetica di questo tipo è anche impiegata per la proposizione di lavori volti a muovere una critica alla moderna concezione espositiva occidentale, con vetrine sorrette da strutture precarie e distorte, in un rimando più ampio all’inadeguatezza di simili approcci. Al tempo stesso, si osserva come il dato corporeo venga investigato anche in un’ottica di genere, nonché di volontà di rovesciamento dell’idea stereotipata di mascolinità come evidenziato da “Saint Batman” (2016). Questa sorta di moderna crocifissione fatta di un sacchetto dell’immondizia, edera in plastica e gommapiuma rosacea si rifà a un’ironica e dissacrante volontà dell’artista di partire da personaggi tipici della tradizione popolare per decostruirne il sistema di significati solitamente attribuiti. In tal caso, l’idea di forza e machismo identificata nel personaggio di Batman si va a sgretolare con la definizione di una nuova figura che con le sue storture, precarietà e debolezza non fa altro che smascherare quanto di falso e irreale ci sia dietro l’idealizzazione della forza di un supereroe che, di fatto, non ha neanche superpoteri. A chiusura del percorso si trova infine “Virgin Variations 1” (2019), un’imponente serie di armadietti contenenti cimeli tipicamente usati sulle tombe come omaggio per i defunti. Il lavoro trae infatti ispirazione dalla leggenda di Sant’Orsola bruciata a Colonia assieme a 11.000 vergini, nel tentativo di far trasparire sia un omaggio funebre che ricostruire (tramite oggetti che comunemente si potrebbe trovare nell’armadietto di uno studente) le personalità degli ipotetici soggetti ispiratori. Il tutto andando a definire una sorta di monumento dedicato alla dignità e memoria di tutti coloro i quali soccombono, inermi, al destino di anonimato sancito dalla Storia.

In questo atto di assoluto smascheramento, evitando superflue celebrazioni, sterili trionfalismi o fantasiosi messaggi di speranza, Jesse Darling pone dunque l’accento sull’importanza vitale del saper andare avanti, aprendosi al cambiamento come a un qualcosa di inevitabile tenendo sempre a mente che tutto avrà, prima o poi, una fine. Ed è proprio questo imprescindibile “nothing is too big to fail” che invita a considerare un altro elemento essenziale – e lasciato sempre più agli estremi di una modernità da cui gli stessi creatori sono a poco a poco marginalizzati – che non può che trovare definizione migliore nelle stesse parole dell’artista: “Vulnerability is a given, like it or not, in everybody. It’s what makes us alive. […] To acknowledge our universal vulnerability, at the level of the mortal body, is for me a way of thinking about trying to care for each other”.

[1] Jesse Darling on Gravity Road and the construction of leisure, September 30, 2020, “Artforum”

Info:

Jesse Darling. No Medals No Ribbons
05/03/2022 – 01/05/2022
Modern Art Oxford
30 Pembroke Street – Oxford

Jesse Darling, Gravity Road, installation view at Modern Art Oxford, 2022. Photo by Ben Westoby, courtesy Modern Art Oxford

Jesse Darling, No Medals No Ribbons, installation view at Modern Art Oxford, 2022. Photo by Ben Westoby, courtesy Modern Art Oxford

Jesse Darling, No Medals No Ribbons, installation view at Modern Art Oxford, 2022. Photo by Ben Westoby, courtesy Modern Art Oxford

Jesse Darling, No Medals No Ribbons, installation view at Modern Art Oxford, 2022. Photo by Ben Westoby, courtesy Modern Art Oxford

Jesse Darling, Saint, Batman, 2016. Private Collection, France, courtesy Modern Art Oxford

Jesse Darling, Demonstration of an order, 2018. Courtesy of the artist and Galerie, Sultana, Paris

Jesse Darling, Planes, installation view at Modern Art Oxford, 2022. Photo by Ben Westoby, courtesy Modern Art Oxford


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