READING

La forma della sottrazione: Caterina Silva alla Ga...

La forma della sottrazione: Caterina Silva alla Galleria Eugenia Delfini

In mostra alla Galleria Eugenia Delfini di Roma, Caterina Silva prosegue la sua indagine radicale sui limiti del linguaggio e della rappresentazione. Attraverso pittura, frammentazione e gesto performativo, le sue opere eludono la forma compiuta per aprire spazi di ambiguità, silenzio e resistenza al significato univoco. In un tempo che esige la nominazione continua, in cui ogni cosa sembra dover essere detta per esistere e contare, la pittura di Caterina Silva compie un gesto controintuitivo: elude, sfugge, si ritrae. La mostra Things that will never become objects, si costruisce come una costellazione di forme non definite, processi inconclusi, linguaggi volutamente ambigui. Non è solo una questione formale: è una posizione etica ed epistemologica nei confronti del mondo. Silva lavora da tempo su una soglia: quella che separa la cosa dall’oggetto, il corpo dalla rappresentazione, il segno con un significato stabilito. La sua pittura non ambisce a descrivere, ma a disfare. In questo senso, il titolo della mostra va letto quasi come un manifesto: le “cose” che non diventeranno “oggetti” sono figure resistenti all’appropriazione semantica, presenze che si rifiutano di aderire a una funzione, a una categoria, a una narrativa. Non è difficile leggere in questa attitudine una critica implicita alle logiche capitalistiche del visibile, là dove tutto – anche l’immagine – è mercificato in quanto riconoscibile, intellegibile, archiviabile.

Installation view: “Things that will never become objects” di Caterina Silva. Galleria Eugenia Delfini, Roma. Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini

Oh-lym-pia, una delle due grandi tele in mostra, elabora a distanza l’iconico nudo di Manet senza cadere nella tentazione della citazione ironica o della traslazione concettuale. Al contrario, Silva destruttura la tela ottocentesca in un palinsesto di tracce cromatiche e ritmi segnici che sfuggono a ogni riconoscibilità immediata. La figura scompare, sopravvivono frammenti che suggeriscono piuttosto che mostrare. Il risultato è una spazialità rarefatta, che non contrappone luce e ombra ma le intreccia in una tessitura di presenze fluttuanti. In luogo della scena, il battito. In luogo del soggetto: la vibrazione. Anche Divide et impera (green) opera in uno spazio di tensione tra struttura e rottura, il riferimento a un algoritmo di scomposizione «divide and conquer» infatti, non è illustrativo ma provocatorio. Silva rielabora il dispositivo attraverso una grammatica pittorica che si rifiuta di aderire alla logica del calcolo. Segni, forme geometriche incompiute, grovigli di colore si dispongono su un campo instabile, senza gerarchie apparenti. Se l’algoritmo lavora per ridurre e semplificare, l’artista apre invece alla molteplicità e all’ambiguità. Il quadro diventa così un organismo attraversato da tensioni, non risolto, né pacificato.

Installation view: “Things that will never become objects” di Caterina Silva. Galleria Eugenia Delfini, Roma. Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini

Ma è forse nella serie: Le cose non mi hanno aspettato, che Silva porta più radicalmente a compimento il suo processo di sottrazione. Le tele, sezionate e riavvolte in cilindri, perdono in via definitiva la loro bidimensionalità, il gesto pittorico viene fisicamente interrotto, decostruito, piegato su sé stesso. L’opera si fa scultura, corpo, rottura. In questo atto di “manomissione” si intuisce una volontà di sabotaggio: non solo dell’immagine, ma del dispositivo stesso della visione. Il quadro non è più superficie da leggere, ma oggetto opaco, enigmatico. La visione si fa esperimento percettivo, discontinuo, frammentario. Il pensiero che attraversa la ricerca di Caterina Silva sembra entrare in risonanza con le riflessioni di filosofi come Byung-Chul Han e Maurice Blanchot. Il primo, nel suo La salvezza del bello, critica la nostra epoca dominata dalla trasparenza e dalla positività, proponendo un’estetica dell’opacità e della contemplazione: la bellezza autentica, per Han, non risiede nella superficie levigata ma nella profondità che resiste allo sguardo. Blanchot, d’altra parte, parla di un’estetica del neutro, di un’opera che si dà solo nella sua sottrazione, nel rifiuto di farsi pienamente presente. La pittura di Silva sembra condividere entrambi questi assunti: ciò che vediamo è sempre in parte ciò che ci sfugge, ciò che resta sospeso, non detto, incompiuto. La forma si fa tensione, non stabilità.

Installation view: “Things that will never become objects” di Caterina Silva. Galleria Eugenia Delfini, Roma. Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini

Con Things that will never become objects, Silva firma una mostra silenziosa e potente, che sfida ogni desiderio di sintesi o interpretazione totalizzante. È un invito – raro e necessario – a stare davanti all’opera senza pretendere di possederla. A lasciare che le immagini esistano anche – e soprattutto – come frammenti, scarti, possibilità non realizzate. In un presente ossessionato dalla trasparenza e dalla comunicazione continua, la sua pittura si erge come un elogio della forma che non si chiude, della parola che non pretende di nominare, dell’immagine che resta, felicemente, inafferrabile. Un’arte che non illustra, non rassicura, non spiega: ma che continua a porre domande là dove il linguaggio vacilla, e forse proprio per questo resta, con ostinazione, necessaria.

Info:

Caterina Silva. Things that will never become objects
Galleria Eugenia Delfini
Via Giulia, 96 Roma
30 aprile – 5 luglio 2025

galleriaeugeniadelfini.it


RELATED POST

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.