Nel cuore di Vienna, tra le pareti rarefatte della Galerie Kandlhofer, si apre Embodied Rituals come un corpo vivo, articolato e attraversato da onde sotterranee. Lontana dall’essere una semplice collettiva, la mostra costruisce un vero e proprio campo di forze tra tre artisti – Donna Huanca, Harminder Judge e Hermann Nitsch – per i quali il gesto non è una semplice traccia, ma un atto trasformativo, e la materia non è un supporto, ma una manifestazione. A unire i lavori non è tanto un tema, quanto una densità sensibile condivisa, un’energia che attraversa superfici, corpi e residui. Le opere esposte non raccontano rituali: li performano, li evocano, li rilasciano sotto forma di pigmento, stratificazioni, fluidi, interruzioni. Ogni opera si apre come una soglia, un territorio di attrito tra l’organico e il sacro, tra ciò che si mostra e ciò che si sottrae. Il termine “rituale”, spesso svuotato e banalizzato nel linguaggio curatoriale contemporaneo, qui si rigenera. Diventa carne, azione, tempo. Nei lavori di questi artisti, non si tratta soltanto di una grammatica simbolica, ma di un varco, un culto del corpo e dello sguardo che si ripete e si disgrega, come la sostanza cromatica che si sedimenta e si dissolve, o il sangue che cola e lascia il segno.

VV.AA., “Embodied Rituals”, 2025, installation view at Galerie Kandlhofer, Vienna, photo credits Manuel Carreon Lopez, courtesy Galerie Kandlhofer
Se, come sosteneva Hans-Georg Gadamer, l’arte è «ciò che resiste al tempo attraverso l’esperienza sensibile», allora questa mostra si pone come un invito a rallentare la frenesia dell’epoca digitale e a riscoprire il peso del corpo, l’intimità della materia e la lentezza dello sguardo. Gadamer ci ricorda che l’arte autentica non si consuma con uno sguardo distratto, ma si vive come evento che coinvolge i sensi e la dimensione interiore dello spettatore. In un mondo dominato da immagini rapide e anestetizzanti, Embodied Rituals propone una riappropriazione dei momenti necessari per lasciarsi attraversare dall’opera, per immergersi nelle sue stratificazioni fisiche e simboliche. Il gesto degli artisti, incarnato negli elementi — pigmenti, sangue, pelle, polvere — diventa così un linguaggio primordiale, una liturgia condivisa che invita a una sospensione consapevole.

VV.AA., “Embodied Rituals”, 2025, installation view at Galerie Kandlhofer, Vienna, photo credits Manuel Carreon Lopez, courtesy Galerie Kandlhofer
Donna Huanca, artista boliviano-americana nata a Chicago, elabora ambienti complessi in cui pittura, scultura e installazione si fondono in una dimensione quasi cerimoniale. Le sue opere spesso prendono forma da performance precedenti e conservano la memoria del corpo dipinto come un segno fossile: pelle che diventa superficie, superficie che si fa archivio. In Polystyrene Fecundity (2019), Huanca utilizza olio e sabbia su stampa digitale su tela, creando una materialità arida e porosa, in equilibrio tra attrazione sensuale e distanza; la superficie si tende come pelle viva, evocando una topografia epidermica. In Geotropism (2019), una scultura che combina capelli sintetici, olio, sabbia su acciaio, l’artista esplora il confine tra natura e cultura, identità e artificio, memoria e trasformazione. I capelli, profondamente legati alla sfera personale e alla memoria, vengono qui riproposti in forma artificiale, suggerendo un’alterità e una metamorfosi continua; l’olio e la sabbia richiamano la pelle e la terra, materiali organici che si sedimentano e si trasformano nel tempo, mentre l’acciaio, freddo e resistente, crea una tensione tra elemento naturale e struttura industriale. Il titolo stesso evoca il fenomeno per cui le piante si orientano rispetto alla gravità, sottolineando la relazione dinamica tra presenza fisica e ambiente, una sostanza vivente che si modella e si adatta costantemente. La sua estetica non si offre per essere interpretata, ma per essere assorbita.

VV.AA., “Embodied Rituals”, 2025, installation view at Galerie Kandlhofer, Vienna, photo credits Manuel Carreon Lopez, courtesy Galerie Kandlhofer
In mostra ci accoglie anche Harminder Judge, artista britannico nato a Rotherham e attivo a Londra, la cui pratica si fonda su un gesto di sottrazione e rivelazione. Le sue superfici non si dipingono, ma emergono: il pigmento si deposita nel gesso e viene portato alla luce attraverso un processo lento, quasi scultoreo. Non c’è pennello, ma solo abrasione, lucidatura e ascolto. Le opere Untitled (2025) sono realizzate con gesso, resina, pigmenti minerali e olio su supporto rigido, ma variano per dimensioni e presenza scenica. Alcuni pannelli di 200 × 200 cm si manifestano come icone laiche, con superfici che restituiscono non solo colore, ma una profondità silenziosa, evocando una dimensione geologica e sedimentata. Altri lavori, di formato molto più contenuto (25 × 25 × 3 cm), mantengono lo stesso rigore materico, ma invitano a un’esperienza più intima e raccolta, in cui il bilanciamento tra vuoto e intensità si fa ancora più sottile. Judge ha descritto il suo processo come fisico e circolare: getta pigmento e gesso colorato in grandi stampi su superfici in plastica, li inclina, li agita, poi aggiunge nuovi strati, rafforza con fibre e infine lucida, finché la superficie inizia a scomparire. Quando il risultato non lo convince, frantuma i pannelli, riduce il materiale in polvere e lo reintegra nei lavori successivi, creando una sorta di memoria materica del fallimento. «Quando funzionano, me lo dicono – afferma – e quando non funzionano, li rompo e li trasformo in qualcos’altro». Per lui, queste opere non sono “dipinti” nel senso tradizionale: «tutto è contenuto all’interno della materia stessa». È proprio questa alchimia – tra colore, pressione e pazienza – che trasforma le superfici in portali visivi, capaci di assorbire lo sguardo. Judge costruisce così una forma di astrazione spirituale e materica, che richiama rituali funebri e pratiche simboliche legate alla perdita e alla trasformazione. Nel rigore formale e nell’essenzialità dei monocromi affiora un’intimità quasi tattile, un varco tra visibile e invisibile, dove il corpo e lo spirito si incontrano.

VV.AA., “Embodied Rituals”, 2025, installation view at Galerie Kandlhofer, Vienna, photo credits Manuel Carreon Lopez, courtesy Galerie Kandlhofer
Hermann Nitsch, presenza mitica nella storia dell’arte austriaca, appare in galleria come un’ombra fondatrice. Le sue Schüttbilder – letteralmente “dipinti versati” – non si contemplano, ma si attraversano: sono esperienze viscerali, violente e sacrali. Tra le opere esposte, Schüttbild (1997), un grande olio su juta (200 × 300 cm), rivela il gesto vigoroso con cui il colore viene versato su una superficie ruvida e resistente, imprimendo nel supporto tutta l’energia primordiale dell’atto pittorico. Il rosso dominante si fa simbolo di sangue rituale, richiamando lacerazione, sacrificio e memoria. Anche Schüttbild (2021), acrilico su juta (270 × 120 cm), conferma questa carica: la colata verticale di rosso profondo, denso, scivola sulla tela in una dinamica quasi teatrale. Realizzata in preparazione alla messa in scena della Walküre di Wagner a Bayreuth, quest’opera testimonia la sinestesia tra pittura, musica e teatro che caratterizza l’intera ricerca di Nitsch. Qui la pittura non rappresenta: compie un evento, un’officiatura laica e cruenta. Continuando, Eroberung von Jerusalem (2008) – serigrafia su reliquia originale (175 × 290 cm) – intreccia immagine e memoria, evocando una dimensione epica e sacrificale. L’opera unisce la precisione del gesto meccanico della stampa serigrafica alla tangibilità concreta della reliquia, creando un contrasto tra il passato storico e la presenza fisica del presente.

VV.AA., “Embodied Rituals”, 2025, installation view at Galerie Kandlhofer, Vienna, photo credits Manuel Carreon Lopez, courtesy Galerie Kandlhofer
Per lo spettatore, l’impatto è immediato e profondo: la monumentalità dell’opera non schiaccia, ma invita a una riflessione lenta e meditativa, quasi ipnotica. Si percepisce un senso di sacralità profana, un’energia ancestrale che attraversa lo spazio e il tempo, facendoci sentire parte di un rito antico e mai del tutto sopito. La superficie complessa, con i suoi colori e texture, suggerisce cicatrici e memorie indelebili, lasciando un’impressione di bellezza crudele e insieme catartica. Questa dialettica tra visibile e invisibile, tra traccia e assenza, fa di Eroberung von Jerusalem un’opera che si offre senza rivelarsi completamente, sollecitando lo sguardo a farsi corpo, e la mente a trasformarsi in un luogo di esperienza più che di semplice contemplazione. Oltre alle pitture, la mostra include una serie di fotografie documentarie che catturano momenti emblematici delle sue azioni artistiche. Questi scatti, carichi di forza espressiva e profondità simbolica, rivelano l’essenza cerimoniale e coinvolgente delle sue esibizioni, offrendo una testimonianza visiva che amplia la comprensione del suo lavoro oltre la tela. Queste opere, insieme ad altre presenti in mostra, fanno dell’arte di Nitsch un campo di battaglia dove colore e supporto si confrontano, si fondono e si consumano. Ogni gesto, ogni colata, è un’azione che chiama in causa il tempo, la carne e la trascendenza. Per Nitsch, l’arte non è mai un’illusione formale, ma un’esperienza totale, tragica, fisica, inevitabile.

VV.AA., “Embodied Rituals”, 2025, installation view at Galerie Kandlhofer, Vienna, photo credits Manuel Carreon Lopez, courtesy Galerie Kandlhofer
Embodied Rituals non propone una narrazione, ma una soglia percettiva. Le opere di Huanca, Judge e Nitsch non illustrano il rituale, ma lo rinnovano. E mentre ci costringono a rallentare lo sguardo, recuperano il gesto come forma di sapere incarnato. Tra carne, pigmento e assenza, la mostra restituisce all’arte un potere antico: quello di ferire, guarire e infine trasformare.
Info:
Donna Huanca, Harminder Judge & Hermann Nitsch. Embodied Rituals
22/05/2025 – 20/06/2025
Orari di apertura: da martedì a venerdì 11:00 – 18:00, sabato 11:00 – 16:00
Galerie Kandlhofer
Brucknerstrasse 4, 1040 Vienna
www.kandlhofer.com
Laureata all’Accademia di belle arti di Catania. Durante il suo percorso di vita, unisce elementi come la scultura, il teatro, la danza e la fotografia, ed è proprio quest’ultima che rappresenta per lei la base per un innovativo ed eclettico percorso artistico. Dal 2010 si avvicina al mondo curatoriale ed inizia così anche a scrivere recensioni e pezzi critici; successivamente fonda “Artisti Italiani – arti visive e promozione”, organizzazione che si occupa di tutti gli aspetti promozionali dell’arte contemporanea.
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