Il tributo che il LUMA di Arles ha dedicato a William Kentridge nel luglio di quest’anno, proprio a ridosso del varo della manifestazione Les rencontres de la Photographie, è stato un modo molto ben riuscito per puntare l’attenzione su uno degli artisti contemporanei più multidisciplinari e iconografici. In occasione dell’inaugurazione della mostra a Kentridge dedicata, dal titolo “Je n’attends plus”, aperta fino al 12 gennaio 2025, è stata messa in scena l’opera “The great yes, the great no” prodotta in partnership con il Festival d’Aix-en-Provence.
Si tratta di un’opera immaginifica, caratteristica della mise en place alla Kentridge, e che dunque mixa musica, canto, recitazione e denuncia politica: in essa l’artista sudafricano, prendendo spunto da un fatto realmente avvenuto, ci racconta una delle tante storie a cui ci ha abituato negli anni, e in cui qualcuno fugge sempre da una repressione più o meno evidente, e che a ben guardare non appartiene al passato, ma trova radici profonde anche nel presente. Il fulcro di “The great yes, the great no” è appunto il racconto di una goletta che salpa dal porto di Marsiglia diretta verso la Martinica e che trasporta all’interno un gran numero di intellettuali tra cui André Breton e Claude Lévi Strauss, che si allontanano di gran carriera dalla Francia, in cui è stata appena varata la Repubblica di Vichy. Già la storia si preannuncia avvincente, ma il colpo di genio dell’artista irriverente si ha quando all’interno della rappresentazione appaiono anche altri personaggi, nomi chiave dell’anticolonialismo come Aimé Césaire, Franz Fanon e le sorelle Nardal, il tutto rappresentato mescolando surreale e irrazionale con una musica coinvolgente dai ritmi caraibici e africani.
Non c’è che dire, Kentridge è un vero genio! A tale considerazione si arriva ugualmente osservando la video installazione “Oh to Believe in Another World” (2022) dove i temi classici di Kentridge si fanno di nuovo vivi. La sua capacità di far percepire direttamente allo spettatore l’analisi del presente è inconfondibile e attraverso una serie di immagini surrealiste e giochi di parole e suoni onomatopeici dadaisti, l’artista sconfessa la politica del potere sovietico e manifesta la sua criticità nei confronti di ogni forma di certezza.
In definitiva l’attitudine maggiore che Kentridge possiede è quella di mescolare i media e soprattutto di utilizzarli con maestria, intervallandoli tra loro, tutti con la stessa capacità espressiva. Saranno state le sue precoci velleità di diventare attore, presto abbandonate a favore della regia, nonostante un fisico possente catalizzatore di attenzione e sopracciglia mefistofeliche. Ed è proprio come regista, deus ex machina ed architrave di tutte le sue opere, che Kentridge impersona il ruolo a lui congeniale di orchestrare qualunque performance, mettendo in relazione parole, fotografie, pittura, installazioni, poesia dimostrando che tutto è possibile, e dopo il suo intervento artistico, niente rimane come prima. Kentridge abita i luoghi dell’arte ed esprime al massimo il suo talento narrativo, coniugando la fantasia nelle performances con il contenuto etico, fortemente antirazzista e anti predominio di qualunque sopruso.
In “More Sweetly Play the Dance” (2015), ad esempio, in uno schermo immenso, contraddistinto da arbusti e piante disegnate alla base dello stesso, un uomo nero con addosso uno djaballah giallo, rotea attraverso gli schermi posizionati gli uni accanto agli altri, con un’energia contagiosa per lo spettatore, che viene immediatamente trasportato nell’opera da una musica coinvolgente e piena. Ma anche nella video installazione “KABOOM!” (2018) il ritmo e le immagini si fondono in un percorso indimenticabile. In particolare, in quest’opera ciò che salta all’occhio subito, oltre alla bellezza delle immagini, che essenziali e fantasiose si alternano sullo schermo, è una riflessione profonda sull’etica di Kentridge. L’artista, figlio di un legale, vide all’età di sei anni, sulla scrivania del padre, delle immagini fotografiche in bianco e nero che appartenevano alla strage di Sharpeville, occorsa a Johannesburg nel 1960. Le immagini lo colpirono fortemente, tanto che in definitiva tutte le sue opere sono contraddistinte da un’estetica essenziale quanto fantasiosa, minimalista anche nel frequente uso del bianco e nero a cui le immagini di Sharpeville fanno da riferimento. Guardando “KABOOM!” (2018) la malinconia assale lo spettatore. Le immagini di uomini neri mentre percorrono una strada senza fine, si susseguono. Gli uomini marciano in fila indiana, con passo lento e continuo, mentre cantano. Ciò che ci ammalia è proprio il loro canto. Una litania gioiosa che non ha motivo di essere tale, essendo essi schiavi. Eppure Kentridge con il suo continuo non sense, con la sua capacità sopraffina di distruggere i luoghi comuni, effigiando una realtà non condivisibile, ma presente, ci porta proprio dove spesso non si vuol vedere. Quegli uomini della strage di Sharpeville, come gli schiavi della performance, sono state vittime inermi del potere dell’apartheid e, come è avvenuto spesso nelle varie epoche storiche, i gruppi più disparati, le persone più fragili e oppresse, cantano, sublimando il dolore inferto loro dagli aguzzini che li predominano, ma preparandosi a un futuro migliore, anche solo con la solidarietà che mostrano tra loro durante la marcia.
Magari si realizzerà davvero la parabola biblica secondo cui gli ultimi saranno i primi, ma nel frattempo, guardando questa grande installazione, come tutte le altre dell’artista del resto, si capta distintamente la sua finalità ultima, volta a dissacrare e sottolineare l’oppressione del sistema verso i più deboli, con una critica sociale sofisticata e tagliente. Il fatto poi che questa banalità del male sia proprio volta all’azione di disturbo verso il pensiero oppressivo e strisciante, e sia messa in atto da un privilegiato uomo bianco del Sud Africa, non fa altro che attribuire un impatto possente all’arte militante di William Kentridge.
Info:
William Kentridge. “Je n’attends plus”
30/06/2024 – 12/01/2025
LUMA Arles
Parc des Ateliers, Avenue Victor Hugo, 35 – Arles
www.luma.org
Globetrotter, appassionata di letteratura, amante dell’arte e della fotografia. Non parto mai per un viaggio senza portare con me un libro di un autore del luogo in cui mi recherò. Sogno da anni di trasferirmi a Parigi e prima o poi lo farò!
NO COMMENT