Joel-Peter Witkin (Brooklyn, 1939. Vive e lavora ad Albuquerque, Nuovo Messico) è uno dei massimi esponenti della fotografia contemporanea: solitario, esagerato, macabro, perturbante, retorico, visionario, cinico, ridondante, grottesco, raffinatissimo: questi sono alcuni dei contraddittori aggettivi che si affollano nella mente di fronte alle sue stampe fotografiche eccessive. In tutta la sua carriera, iniziata come fotografo militare incaricato di documentare la quotidianità delle truppe basate in Europa (focalizzandosi su incidenti e suicidi), la morte è un elemento imprescindibile del suo universo poetico, declinato con un’estetica sovrabbondante, ma a suo modo di impeccabile eleganza. Witkin ha sostenuto in alcune interviste che quest’ispirazione fondante ha radici in un episodio a cui assistette da bambino: un tragico incidente stradale avvenuto di fronte a casa sua in cui una bambina venne decapitata e la sua testa – da una delle auto rovesciate – rotolò sul marciapiede dove lui si trovava.

Joel-Peter Witkin, “Au revoir”, installation view at CAR Gallery, Bologna, courtesy CAR gallery
Quest’immaginario cruento e tetro nella sua poetica vive in simbiosi con la capillare instillazione di un vertiginoso catalogo di immagini tratte dalla storia dell’arte classica e moderna, aleggiante e ubiquo nella composizione generale come nel dettaglio in apparenza più ordinario. I soggetti privilegiati dell’artista afferiscono ai generi accademici della natura morta e della vanitas: protagonista assoluto è il corpo umano nudo, un corpo agli antipodi di ogni conformazione ideale che compare, spesso per frammenti, come oggetto di composizioni still life assieme ad altri elementi chiave del genere, come suppellettili da tavola, orologi, teschi, frutta prossima a marcire su tavoli apparecchiati come banconi di una sala da autopsie, animali (anch’essi smembrati). I suoi modelli, in molti casi star dei freak-show e persone con corpi gravemente handicappati o mutilati, sfidano gli stereotipi dominanti del corpo civilizzato ed esibiscono configurazioni carnali inaspettate: deformazioni, smembramenti, incisioni, paralisi, avvizzimenti e amputazioni, tanto più devianti rispetto alla norma se li rapportiamo al puritanesimo con cui la cultura americana ha sempre trattato il corpo. Witkin disturba[1] per la sfacciataggine della sua ricerca autarchica e perché l’impatto delle sue immagini non può fare a meno di chiamare in causa il tema della presunta veridicità della fotografia, del suo valore di testimonianza e, in questo caso, di reliquia.

Joel-Peter Witkin, “Au revoir”, installation view at CAR Gallery, Bologna, courtesy CAR gallery
Reazioni a volte ostili hanno accolto le foto in cui Witkin si sofferma su cadaveri e resti umani o animali (talvolta si tratta di modelli anatomici museali, sovente di scatti da lui realizzati negli obitori), inserendoli in un’ambientazione elaborata. Non è l’unico fotografo contemporaneo a lavorare in questo campo e tutti si collocano in una duratura vena artistica che deriva dalla danza macabra del Medioevo, dal memento mori e dalle vanità della pittura classica, dalle disiecta membra dei condannati dipinti da Géricault, come scrive Anne Biroleau in Joël–Peter Witkin. enfer ou ciel, heaven or hell (2012, Editions de la Martinière). Per non parlare della fotografia popolare ottocentesca dei ritratti post-mortem, ritoccati a posteriori e animati dall’intento di preservare l’illusione che la persona fosse ancora viva, che godette di una diffusione straordinaria per oltre un secolo suscitando pochissime controversie, sebbene in seguito sia scomparsa dall’immaginario pubblico e sia migrata verso la sfera dell’arte. Ma l’opera di Witkin disorienta anche perché si pone in netta antitesi rispetto ai canoni dell’immagine contemporanea digitale, fluida, colorata, smaterializzata e replicante: l’artista, infatti, concepisce la fotografia come manufatto, esito di un processo di cui lo scatto è solo una delle fasi. Si tratta anzitutto di staged photography, in cui in cui lui, come se fosse un regista, mette in scena ogni elemento in anticipo per avere il pieno controllo della materializzazione della sua idea. Witkin allestisce con meticolosità i suoi set sulla base di attenti disegni fatti a matita o a carboncino e appunti manoscritti per il posizionamento degli oggetti, l’angolazione dell’illuminazione, la disposizione dei modelli contro pareti neutre o drappeggi, la loro postura, le dimensioni, i volumi e i costumi.
Lo shooting si svolge in meno di mezza giornata, inclusa la preparazione dei set e dei modelli, anche perché il fotografo (che in genere privilegia il medium analogico) utilizza un solo rullino. La costruzione delle sue immagini prevede poi che si occupi in prima persona della realizzazione della stampa in bianco e nero in camera oscura, predisponendo i bagni chimici e intervenendo poi sulla carta fotografica già impressionata raschiando, strappando, scarabocchiando, incidendo, aggiungendo vernice, ritocchi, ritagli, collage o strati di encausto, in un tentativo di sovrascrivere all’immagine grezza le tracce del pensiero immaginativo che l’ha fatta scaturire. L’artista sembra opporsi alla natura multipla della fotografia: produce poche copie (di regola tirature in dieci esemplari) e spesso pezzi unici, posto l’ulteriore carattere di irripetibilità conferito nelle serie dalla varietà delle manipolazioni successive alla stampa, al punto che, visto che da qualche anno si dedica solo al disegno, di alcuni degli scatti più iconici rimangono in circolazione solo le prove d’artista. Ciò che invece è funambolicamente plurale, come accennavamo all’inizio, è l’immaginario artistico che i suoi scatti riescono a miscelare, combinando allusioni al Rinascimento italiano, francese, tedesco e fiammingo, alle statue classiche greche e romane, ma anche alla grande fotografia americana, da Walker Evans a Diane Arbus, ed europea, con Henri Cartier-Bresson e Mario Giacomelli. Witkin non crea senza materiale preesistente e mette in relazione la sua opera con l’arte del passato con un approccio che si potrebbe definire tassonomico.

Joel-Peter Witkin, “Au revoir”, installation view at CAR Gallery, Bologna, courtesy CAR gallery
Infatti, nelle sue composizioni sviluppa una fitta rete di immagini estranee, che risultano attive come enigmatiche figure retoriche di un discorso stupefacente per il suo virtuosismo sintattico. La citazione è una pratica comune nella storia dell’arte, ma qui non si tratta dell’instaurarsi di un rapporto intertestuale, ma del coagularsi in un’opera originale di un’immagine prodotta a partire da citazioni, collage e allusioni che al suo interno assumono il valore di lessemi. E queste minime unità linguistiche sono orchestrate in funzione di un corpus fotografico abnorme, che invita a sganciare la soddisfazione estetica dal referente in modo che lo sguardo possa perdersi nella profusione barocca dell’immagine. Anche se siamo inevitabilmente sfidati a riconoscere strutture, assetti compositivi, dettagli e iconografie di artisti come Goltzius, Ribera, Rembrandt, Goya, Courbet, Ensor, Picasso, Beckmann (solo alcuni nomi di un pantheon sterminato, per dare un’idea di ciò che lo attrae), tutto è sovrastato da un ambiguo piacere per l’eccesso anatomico e dalla densità di un’indagine che ripristina nel nostro tempo refrattario una continuità con la morte e il lato oscuro della vita, connessione da tempo rimossa dall’immaginario collettivo occidentale.

Joel-Peter Witkin, “Au revoir”, installation view at CAR Gallery, Bologna, courtesy CAR gallery
La mostra Au revoir in corso a Bologna da CAR Gallery, che riunisce una selezione di stampe analogiche (la maggior parte) e digitali di piccolo formato, realizzate tra il 1998 e il 2017, è, quindi, una preziosa occasione per avvicinarsi all’opera di un maestro che occorre ammirare “dal vivo”. Il progetto espositivo, elaborato in collaborazione con lo studio dell’artista e con Baudoin Lebon, suo storico gallerista, è anche il debutto nel mondo della fotografia della galleria bolognese, che nell’ultimo periodo sta spostando il baricentro della sua ricerca dall’ambito, prima esclusivo, degli artisti emergenti in direzione di uno sguardo più ampio e strutturato verso la produzione artistica contemporanea, includendo anche artisti mid-career già noti a livello internazionale e, ora, nomi di culto come quello di Joel-Peter Witkin. Rispetto alle opere, molto crude, che negli anni ‘80 e ‘90 hanno consacrato il maledettismo del fotografo, i lavori presenti in mostra costituiscono una declinazione più morbida, quasi romantica, della sua poetica, le cui venature cupe, sono in questi saggi determinate non tanto dall’insistenza sulle lesioni fisiche o sulle deformità dei corpi (da lui sempre assiduamente frequentata), quanto dall’ambiguità di atmosfere meditative capaci di suscitare l’ansia che si prova sulla soglia di un mistero.

Joel-Peter Witkin, “Witkin Night in a Small Town”, New Mexico, 2007, silver print, 50 x 40 cm, courtesy CAR gallery
Tra i pezzi più notevoli, segnaliamo Imperfect Thirst (2016), estenuato profilo di una donna di una donna di eleganza preraffaellita che posa dietro un parapetto da sacra conversazione con un barracuda in testa, oppure Night in a Small Town (2007), surreale duetto all’interno di una stanza hopperiana di una pianista e di una cantante-centauro, oppure Life is an Invention: The Constellation of Balthus (2008), onirico tableau vivant affollato di presenze e citazioni orchestrate come in un balletto d’avanguardia. La mostra si conclude idealmente con Au revoir (2007), disegno a matita di impronta picassiana collocato a fianco di Oedipus and Giocasta (2007), confronto molto illuminante per indagare il modus operandi dell’artista.
[1] Nella scheda tecnica della mostra “Joel-Peter Witkin Il Maestro dei suoi Maestri” tenutasi nel 2013 al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli, ad esempio, compariva la seguente avvertenza: “La Fondazione Alinari desidera informare il pubblico che le fotografie esposte possono risultare scioccanti, pertanto la visione della mostra è sconsigliata alle persone sensibili e ai minori”.
Info:
Joel-Peter Witkin. Au revoir
8/03/2025 – 19/04/2025
CAR Gallery
via Azzo Gardino, 14/a – Bologna
www.cardrde.com
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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