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Le performance plurisensoriali di Isabel Lewis

Le performance plurisensoriali di Isabel Lewis

All’indagine sulle nuove tecnologie e le possibilità immaginative dei creativi rispetto al futuro, che vado pubblicando su “Juliet” a stampa, partecipano personalità rappresentative di varie discipline. Nella terza puntata verrà riportata anche la testimonianza di Isabel Lewis – artista poliedrica di levatura internazionale, originaria di Santo Domingo e residente a Berlino – che si esprime con la massima estensione del linguaggio del corpo, utilizzando pure mezzi multimediali, per il coinvolgimento totale del pubblico.  Il tutto supportato da profonde riflessioni filosofiche. In anteprima ho ritenuto opportuno condividere con i lettori di questa edizione online l’intervista con la Lewis. In essa, tra l’altro, ella anticipa le caratteristiche del progetto performativo che attuerà nel prossimo giugno a Messeplatz di Basilea nell’ambito della prestigiosa Art Basel:

Luciano Marucci: Le nuove tecnologie possono stimolare l’immaginario e favorire l’invenzione artistica?
Isabel Lewis: La tecnologia è stata e sempre sarà uno strumento che risegnala al corpo che l’ha creato e che è creato da esso in un processo che media lo scambio umano con il mondo. Come dice Donna Haraway in Simian, Cyborgs and Women, “I nostri corpi sono il prodotto dell’adattamento all’uso degli strumenti avvenuto prima del genere Homo”. Secondo me, il nostro rapporto con la tecnologia è una parte integrante di chi noi siamo e di chi diventeremo, quindi, anche l’invenzione artistica sembra parte di questo processo evolutivo.

I creativi più sensibili e intuitivi che partecipano responsabilmente al divenire della realtà possono far intravedere plausibili scenari futuri?
Mi piace la tua allusione alla sensibilità e all’intuizione, perché penso che suggerisca altri tipi di visione al di là del meccanismo della vista che abbiamo inequivocabilmente valutato come la facoltà suprema dell’acquisizione della conoscenza nella nostra attuale cultura occidentale. Tu evochi anche il senso di responsabilità e quello dei produttori di realtà nel processo di creazione che per me si estende oltre lo spazio circoscritto dalla moderna nozione di “arte”. La realtà è prodotta in molti tipi di ambienti e in molte sfere sovrapposte tra cui quelle della casa, dell’economia, della scienza, della governance, della socialità. Nella tua domanda sento un ottimismo che condivido e credo che questi ambiti siano maturi per il cambiamento e che possano nel tempo, con sforzo e cura, essere modificati, rinnovati, immersi in un altro tipo di spirito o sistema di valore, così che nuovi significati possano ‘risuonare’ per noi e rivelare possibili futuri. Penso che il ventunesimo secolo riguardi la riabilitazione del nostro human sensorium, integrato con le potenzialità attraverso la pratica di coltivare anche le facoltà extrasensoriali. Nell’Europa pre-illuministica ci sono precedenti di avanzate comprensioni qualitative del mondo prima del cambiamento completo verso le comprensioni quantitative della visione scientifica del mondo stesso che richiedeva la denigrazione di tutte le altre forme di conoscenza e che ci strappava dalla comunione con il nostro cosmo e con tutto ciò che conteneva, in un interesse di distanziata e disinteressata “obiettività”. Per me queste modalità qualitative e quantitative non si escludono a vicenda e il futuro consiste nel mixarle per espandere il repertorio dei modi di conoscere e di curare che possono estendersi ai nostri rapporti con le cose oltre la distinzione categorica della nostra specie.

Ricordo la tua composita e suggestiva performance tenuta nell’ottobre 2014 a Londra, dove avevi realizzato, nell’ambiente spoglio dell’ICA, un giardino conviviale mettendo in scena, con la tua dinamica e vocale esibizione, piante, apparecchiature elettroniche, arredi e spettatori. I nuovi media continuano ad avere un importante ruolo nella tua attività artistica?
Giocare con e testare i format continuano a essere importanti per la mia pratica. Per me la sperimentazione con essi è la chiave per aprire nuovi campi di possibilità con sistemi di valori alternativi in grado di raccontare nuove storie necessarie per capire le nostre condizioni attuali e per diventare più consapevoli della nostra particolare azione al loro interno. Non intendo far pensare che le nuove storie non possano essere raccontate in un format già esistente come la mostra, ma ognuno circoscrive una particolare disposizione del sensibile e ho la sensazione che, se una storia propone un’impostazione alternativa dentro un egemonico ordinamento del sensibile, rimane sempre e solo reazionaria, quindi inavvertitamente reifica quell’ordine piuttosto che interromperlo o alterarlo veramente.

Le tue performance vogliono creare multimediali luoghi relazionali? I media tecnologici usati hanno la funzione di esaltare le tue azioni corporali con vocalizzi associati a musiche e suoni, contribuendo ad attivare più sensi degli spettatori?
Penso che l’ibridazione e il rapporto con la tecnologia siano la condizione del nostro essere e quindi non qualcosa di particolarmente eccezionale. Però credo che nella nostra attuale cultura abbiamo la cattiva abitudine di delineare confini netti su condizioni concettualizzate come stabili, dove sarebbero più appropriati gradienti o gradi di differenza in processi in corso. Tendiamo a pensare dialetticamente alla natura contro la tecnologia, all’organico e all’inorganico, alla vita e alla non vita e così via. Sento che con le mie performance non creo spazi multirelazionali, dato che siamo tutto il tempo nello spazio multirelazionale, ma lavoro per generare condizioni che rivelano una consapevolezza più significativa di quelle relazioni, una comprensione più percepita che puramente intellettuale della condizione di intradipendenza con gli abitanti della nostra ecosfera. Per provare a fare ciò, per me è importante ideare il lavoro in modo che si rivolga a tutti i sensi, che richiami l’impegno corporeo degli ospiti con modalità più o meno sottili.

Le tecnologie fanno parte integrante del tuo linguaggio performativo plurisensoriale, tendente a stabilire una profonda simbiosi tra modernità del mondo artificiale e vitalità di quello naturale?
Sì, le tecnologie sono una parte integrale e integrata – non eccezionale – del mio linguaggio performativo. La Simbiosi è un concetto interessante; la differenza esiste in stretta associazione. Non voglio comunque tracciare la linea di differenza dove tu la fai quando circoscrivi il moderno mondo artificiale e il mondo naturale vitale, poiché non penso che la natura esista al di fuori della sua comprensione da noi costruita. La natura in quanto tale è una creazione artificiale della modernità. Io traccerei la linea di differenza tra il sapere solo temporaneamente stabile e il costante inconoscibile, che per la verità sono tutto il tempo in profonda simbiosi.

Il fine ultimo è di stimolare comportamenti umani più liberi, intimamente connessi agli esseri vegetali presenti sulla scena?
Hmm, non è facile dire… Non sono sicura di avere un chiaro obiettivo finale poiché è piuttosto difficile per me pensare in termini di produzione a un risultato compiuto con il genere assai processuale del mio lavoro ma, stimolando una connessione con altri esseri come le piante, non mi sembra male! E credo di essere interessata a comportamenti umani più contingenti e più forzati che a quelli di per sé “più liberi”.

Stai già pensando all’installazione relazionale che attuerai a Messeplatz in Basilea con Lara Almarcegui e il Recetas Urbanas Architectural Studio di Santiago Cirugeda, nell’ambito della prossima edizione di Art Basel? Suppongo che farai largo uso dei media tecnologici per accrescere l’interazione con il grande pubblico.
Sì, in questo momento il mio lavoro a Messeplatz di Basel è in preparazione. Sto documentandomi e conoscendo la città e i suoi abitanti al di là di ciò che diventa durante la fiera dell’arte che fino a poco tempo fa è stata la mia principale relazione con il luogo. Quando mi trovo in Messeplatz devo chiedermi: a che tipo di “pubblico” si rivolge questo spazio? Evoca in me domande di appartenenza e identificazione, alienazione e disorientamento, e immagino la carne morbida dei corpi e le azioni che producono mentre desiderano, lottano, si incontrano e si mettono in contatto l’uno con l’altro nel paesaggio urbano. A volte userò sicuramente il suono amplificato per creare un senso del luogo, per inquadrare e fornire in qualche modo un senso di recinzione ancora aperto e permeabile ma anche un posto certo e finalizzato per quanti partecipano al lavoro all’interno dell’area di Messeplatz. In uno spazio pubblico tanto transitato e con molte attività ci sono diverse temporalità che coincidono, così tanti intervalli e sistemi temporali che si scontrano in ogni singolo momento. La cosa per me è veramente eccitante! Non vedo l’ora di contribuire a questa asincronia e di creare ancora altre modalità temporali con la partecipazione dei Baselers con i quali sto lavorando e del pubblico coinvolto nel lavoro.

9 aprile 2018
(Traduzione dall’inglese di Kari Moum)
a cura di Luciano Marucci

Isabel Lewis (courtesy the Artist; ph Jonas Holthaus)

Isabel Lewis in performance “Wrap” (courtesy the Artist; ph Joanna Seitz)

Isabel Lewis, “Strange Action”, 2010, performance with Josep Maynou at the Space in New York (courtesy the Artist; ph Arturo Martinez Steele)

Isabel Lewis, performance, October 15th, 2014, Old Selfridges Hotel in London (collaboration ICA and Liverpool Biennial) for Frieze Art Fair (courtesy the Artist; ph L. Marucci)

Isabel Lewis, “Occasion”, performance at Chart Art Fair 2016 in Copenhagen (courtesy the Artist)

Isabel Lewis, “Occasion for Ten Days Six Night”, 2017, BMW Live exhibition, Tate Modern, London (courtesy the Artist; ph Alexander Coggin)

on the left: The artists Lara Almarcegui and Isabel Lewis with the architect Santiago Cirugeda who will implement the project (commissioned by Creative Time of New York) in Messeplatz of Basel during Art Basel 2018


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