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Letizia Cariello. Joie de Vivre

Letizia Cariello. Joie de Vivre

Lo scorso 8 marzo a MIA PHOTO Fair il Premio BNL Gruppo BNP Paribas, attribuito da una giuria di esperti  al migliore tra gli artisti proposti dalle gallerie, è stato assegnato al progetto Joie de Vivre di Letizia Cariello, rappresentata dalla Galleria Massimo Minini di Brescia.  Si tratta, come recita la motivazione della giuria, di un progetto concettuale di ampio respiro che reinventa la fotografia utilizzando un metalinguaggio e introducendo una narrazione basata sulla sensitività. L’opera consiste in una serie di 20 fotografie provenienti dall’archivio familiare di Cristiana Carminati che l’artista ha duplicato e rielaborato con ricami a filo rosso, inserti di piume e spine di rose e interventi pittorici con smalto per unghie. L’originale e la copia modificata di ciascuna immagine vengono poi esposte affiancate all’interno di un’apposita struttura in legno a cassetto, sul cui piano di fondo si alternano una superficie bianca e una carta da parati vintage. Le foto ritraggono Carlo, il padre della donatrice, in vacanza a Saint-Tropez negli anni ’60 assieme alla futura moglie Kikka e alcuni amici, ed erano state commissionate a un fotografo locale incaricato di seguire la vita del gruppo e documentarne i passatempi estivi. Belli, sregolati, nel fiore degli anni e forse innamorati, i giovani  allora soprannominati “Les Italiens” vivono in un clima di libertà e spensieratezza che rievoca l’epoca d’oro delle grandi illusioni sessantottine.

Le manipolazioni di Letizia Cariello penetrano la patinata superficialità di queste scene per individuare relazioni, linee di forza, solitudini, legami, emozioni e fragilità delle persone ritratte enfatizzando ciò che nella foto originale traspare solo come labile intuizione. Gli inserti tridimensionali aggiunti nei punti nevralgici della riproduzione trasformano l’immagine in un oggetto concreto e districano la complessa stratificazione di livelli psicologici, fisici ed emotivi inglobati nell’istantaneità dello scatto in una vera e propria architettura del ricordo di cui costituiscono le pietre angolari.

Come è nato il progetto Joie de Vivre e in base a quale criterio ha scelto le immagini da includere nella serie?
Il progetto è nato per caso quando Cristiana Carminati ha incontrato mio lavoro: era molto legata a queste foto che la seguivano e la turbavano da anni e si domandava cosa farne, quindi ha deciso di mostrarmele. Per la prima volta mi trovavo a lavorare con immagini non scattate da me e non ero sicura di poter trovare un percorso e una direzione naturali. Ma quando ho aperto la scatola in cui erano custodite, le voci delle persone ritratte mi hanno invasa come le visioni generate da una lampada di Aladino. All’inizio ero quasi scioccata dalla percezione di queste vite felici ma interrotte, sentivo che c’erano molte cose rimaste in sospeso, come se mi venisse chiesto di finire la frase. Ho istintivamente deciso di scegliere 20 foto senza possibilità di ripensamento, imponendomi di evitare qualsiasi ragionamento sedimentato. La seconda fase di lavoro è durata più di un anno e mezzo, in cui ho cercato di ascoltare ciascuna immagine per canalizzare e far fluire l’energia bloccata che racchiudeva. Il processo ha richiesto lentezza e delicatezza, ho dovuto impormi delle pause tra l’una e l’altra per evitare di automatizzare l’operazione. Ogni immagine doveva essere l’incontro con un’entità nuova. Non c’è stata un’unica decisione iniziale: bisognava rammendare i rapporti, aiutare, cucire, rimettere insieme e, come in ambito medico, la cura pur avendo un campo d’azione preciso e disciplinato, non poteva essere predeterminata, doveva seguire le reazioni del “paziente”.

Spine di rosa, piume e filo rosso ricorrono da anni nella sua variegata produzione artistica. Attribuisce a questi elementi un particolare significato simbolico o è semplicemente attratta dalle loro potenzialità estetiche?
I simboli rimandano sempre a qualcos’altro, mentre gli oggetti hanno un loro suono, odore e significato che io non voglio ridurre a una didascalia, sono delle cure che non rimandano nient’altro che a se stesse. Nel linguaggio delle forme non mi interessa l’estetica intesa in senso decorativo, ma il potere evocativo e significante delle cose e dei gesti che la loro presenza implica.

Pensa che la tradizione scultorea che da oltre duecento anni si tramanda nella sua famiglia abbia influenzato la sua interpretazione tridimensionale della fotografia?
All’Accademia ho studiato pittura e pensavo di lavorare in modo bidimensionale, poi le cose mi hanno portato tutte verso la terza dimensione. Sono sempre stata amante degli scultori (adoro Giacometti, Camille Claudel e Brancusi), ma non credevo che quest’attrazione riguardasse il mio linguaggio. Invece dopo la conclusione del lavoro ho constatato con sorpresa quanto fosse tridimensionale e mi sono resa conto che alla fine devo sempre costruire delle cose, è un’eredità atavica che riemerge.

 Il particolare display a cassetto che ospita le immagini crea un rapporto di interdipendenza tra opera e cornice che estende anche a quest’ultima la funzione significante del suo contenuto. Che relazione intercorre tra questi due elementi?
È la continuazione di un discorso iniziato apparentemente per caso tre anni fa: a un certo punto non riuscivo a non costruire personalmente anche la struttura in cui stavano le mie fotografie. Come i pittori olandesi del ‘600 che tendevano a includere le loro nature morte in strutture tridimensionali, per le mie foto avevo bisogno di un elemento architettonico che mediasse tra lo spazio interno del pensiero individuale e quello esterno che abitiamo fisicamente. Anche Giotto e Mantegna nelle pale d’altare progettavano e costruivano anche la struttura che ospitava le tavole dipinte, non era una questione estetica ma un aspetto determinante per la chiusura del lavoro. La cornice quindi non è una finitura ma ha un’importante funzione di ricucitura tra il tempo interiore fluido e quello esteriore che si scontra con l’aspetto materiale dell’esistenza. Così nella serie After Vermeer del 2014 ho iniziato a collaborare con maestri ebanisti per creare pezzi unici che formassero con l’opera un insieme indivisibile. Le strutture a cassetto si inseriscono in questo percorso, a cui si è aggiunta in corso d’opera l’idea di foderarle con carta da parati come si usava in passato. Il richiamo ai “cassetti dei ricordi” è venuto da sé: quando un lavoro deriva da un processo aperto ha un’autonomia espressiva che talvolta stupisce anche il suo autore, se a posteriori scopre congruenze impossibili da programmare a tavolino. Penso che un’opera funzioni quando l’artista sa essere coerente e rigoroso nei propri intenti senza diventare esecutivo e prevedibile, in primo luogo per se stesso.

Joie de Vivre restituisce vitalità e presenza a vecchi ricordi per anni dimenticati in una scatola. L’intento di “curare” queste memorie e ricucirne le implicazioni altrimenti destinate all’oblio è presente sin dall’inizio del progetto o è emersa in corso d’opera?
È presente fin dall’inizio del progetto, come dicevo prima io ho risposto a una richiesta perché ho percepito una domanda e per questo ho potuto interagire con immagini non scattate da me. Nelle opere tridimensionali e nei calendari ho sempre utilizzato una dimensione di ascolto che ora, manifestandosi anche nel lavoro fotografico, ribadisce la mia concezione dell’arte come strumento per individuare una ferita e curarla… La nostra società avrebbe molto bisogno di cure e chi cura di solito è il più debole di tutti, si sente così bisognoso di terapie che finisce per curare gli altri.

Letizia Cariello, Joie de vivre, 2017, installation view at MIA PHOTO Fair 2018, Galleria Massimo Minini

Letizia Cariello,  Joie de vivre, zero 2017 C-print e filato di lana 36×31 cm

Letizia Cariello, Joie de vivre, sei 2017 C-print e spine di rosa 36×53 cm

Letizia Cariello, Joie de vivre, cinque, 2017  C-print e spine di rosa 36×53 cm


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