Interrogare il lavoro di Louise Nevelson (Kiev, 1899 – New York, 1988) significa ancora oggi confrontarsi con una delle più potenti riflessioni sulla trasformazione della materia e dell’essere che l’arte del Novecento abbia saputo elaborare. L’occasione ci viene ora offerta, a Bologna, da una nuova mostra, allestita al piano nobile di Palazzo Fava e curata da Ilaria Bernardi, che propone una lettura dell’universo scultoreo dell’artista discostandosi dalla consueta celebrazione dell’assemblage basato su un processo di ripetizione per rivelare altre stratificazioni simboliche e processuali di una ricerca anticipatoria rispetto a questioni centrali nel dibattito contemporaneo: dall’ecologia delle pratiche artistiche alla decostruzione dei ruoli di genere, dalla fenomenologia della percezione alla dialettica tra margine e centro del sistema dell’arte. L’allestimento si snoda attraverso cinque nuclei tematici e si basa su una decostruzione metodologica dell’opera dell’artista che privilegia la qualità analitica rispetto alla quantità espositiva: l’intento è quello di creare il tempo e lo spazio necessari per evidenziare le processualità materiche e concettuali sottese a ogni serie di lavori, al di là dei canoni di un generico astrattismo (di cui, peraltro, Nevelson è considerata maestra indiscussa).

Louise Nevelson, solo show, installation view at Palazzo Fava, Bologna, courtesy Genus Bononiae – Musei della Città
La prima sala accoglie il visitatore con alcune imponenti sculture autoportanti nere, le “Sky Cathedrals” che hanno consacrato fin dagli anni ʽ60 la fama internazionale dell’artista ucraina naturalizzata statunitense. In questi calcolati assemblaggi, frammenti di mobili, stampini tipografici, gambe di tavoli e cornici perdono le proprie specificità morfologiche per confluire in una grammatica visiva unitaria. La patina nero piombo che riveste in modo uniforme ogni elemento non rappresenta un mero espediente formale per favorire l’omogeneità visiva, ma costituisce il dispositivo concettuale attraverso cui l’artista attua una sorta di “nigredo” contemporanea, ovvero la prima fase del processo alchemico di creazione della pietra filosofale, quello della putrefazione e della decomposizione, in cui le diverse sostanze vengono fuse in un magma indifferenziato prima della trasformazione finale. La materialità dell’opera diventa dunque manifestazione di un processo alchemico che, mutuato dalle discipline esoteriche, viene tradotto in una poetica della trasformazione identitaria. Gli elementi raccolti – sedie, cassetti, cornici, maniglie – rappresentano l’alfabeto segnico tradizionale della domesticità femminile, ma il loro accumulo risponde a un’esoterica strategia di sottrazione: separando i materiali di recupero dalla loro identità funzionale, Nevelson li eleva a una dimensione altra, dove lo scarto sociale si trasfigura in monumento celebrativo. La loro successiva ricomposizione genera architetture che rivendicano lo spazio pubblico con la forza di antichi totem, pur nel persistente riferimento all’intimità domestica. In tale commistione di privato e sociale si rivela il nucleo militante della ricerca dell’artista: la trasformazione degli oggetti-reliquia della sfera domestica in potenti strumenti di autoaffermazione identitaria.

Louise Nevelson, solo show, installation view at Palazzo Fava, Bologna, courtesy Genus Bononiae – Musei della Città
Il percorso espositivo prosegue con il ciclo delle “Porte”, presentato nella seconda sala con quattro opere esemplificative che coprono un arco temporale di oltre vent’anni. La porta, elemento iconografico fondamentale nell’immaginario alchemico, si configura come soglia simbolica tra l’aldiquà dello scarto e l’aldilà della trasfigurazione artistica. La porta più piccola, realizzata nel 1959, probabilmente recuperata dalla cantina dell’artista e minimamente modificata attraverso l’aggiunta di piccoli elementi lignei, testimonia l’origine quasi casuale di una serie destinata a svilupparsi in direzione sempre più complessa e strutturata. Le porte più tarde degli anni Settanta rivelano invece un processo compositivo più stratificato, dove gli elementi domestici – sedie, gambe di tavoli, utensili – vengono orchestrati in configurazioni che evocano la sintesi simbolica dell’intera abitazione. La terza sala introduce un’ulteriore modulazione formale, sviluppata da due opere in scala ambientale caratterizzate da una geometria più regolare, da una densità compositiva ridotta e da un più marcato orientamento all’astrazione. Qui Nevelson abbandona il recupero casuale di materiali domestici per rivolgersi a scaffali tipografici industriali, creando strutture che anticipano la fase aurea del suo percorso. I titoli di queste opere, a differenza delle consuete denominazioni “Untitled”, recano riferimenti espliciti al tema paesaggistico – “Tropical Landscape” (1974) e “City series” (1974) – rivelando l’aspirazione dell’artista a una sintesi finale tra artificio umano e ordine cosmico.

Louise Nevelson, solo show, installation view at Palazzo Fava, Bologna, courtesy Genus Bononiae – Musei della Città
La sala dedicata alle rare incisioni documenta un aspetto meno noto della sua produzione, quello grafico, dove emerge con particolare evidenza la tensione tra figurazione e astrazione che attraversa l’intera sua ricerca. In tre preziose incisioni ad acquaforte e puntasecca (“Archaic Figure”, “Jungles Figures III”, “Magnificent Jungle Cats”, tutte realizzate nel 1953) ancora pervase dal linguaggio espressionista americano, si intuiscono presenze antropomorfe – occhi, nasi, bocche – che la stratificazione materica delle opere mature renderà sempre più indecifrabili. La dimensione grafica rivela, inoltre, l’anticipazione di quella geometrizzazione che caratterizzerà le fasi successive, confermando la coerenza di un percorso evolutosi per progressive purificazioni formali. L’itinerario si conclude nella sala dei Carracci con le ieratiche sculture dorate, vertice simbolico del processo alchemico. Qui il piombo si trasforma definitivamente in oro, materializzando il raggiungimento di quella sintesi perfetta tra opposti che costituiva l’obiettivo ultimo della ricerca alchemica tradizionale. Le forme si fanno più riconoscibili, gli elementi compositivi più definiti, mentre l’oro conferisce una dimensione sacrale che trascende la preziosità materiale per evocare quella luce spirituale che gli alchimisti associavano alla trasformazione finale della materia. Significativa risulta la presenza, in questa sala conclusiva, di opere che accostano il nero all’oro, documentando la compresenza degli opposti che innerva tutta la produzione di Nevelson. Altrettanto rivelatrice è l’inclusione di lavori che presentano il legno allo stato naturale accanto agli elementi dorati, un cortocircuito concettuale che testimonia il raggiungimento della consapevolezza che l’oro autentico coincide con la natura nella sua manifestazione immediata.

Louise Nevelson, solo show, installation view at Palazzo Fava, Bologna, courtesy Genus Bononiae – Musei della Città
Come si diceva all’inizio, l’ecologia delle pratiche creative, l’urgenza del riciclo e del riuso dei materiali, la decostruzione delle identità di genere tradizionali, la ricerca di nuovi equilibri tra umano e naturale, sono temi estremamente attuali, rispetto ai quali Louise Nevelson fu una pioniera inconsapevole. Animata dall’urgenza di indirizzare la propria esperienza biografica di donna artista, figlia di un immigrato falegname, verso il riscatto e l’autorealizzazione spesso preclusi in quell’epoca all’universo femminile, Nevelson finisce per creare un laboratorio di sperimentazione identitaria dalle implicazioni universali, scandagliando con i mezzi dell’arte l’invisibile processo di trasformazione che attraversa ogni esistenza individuale e collettiva. I materiali di scarto da lei recuperati e trasfigurati costituiscono la concretizzazione di quelle parti di sé e della società che il pensiero dominante relega ai margini: il femminile, l’immigrato, il povero, il domestico. La loro elevazione a dignità artistica attraverso il processo alchemico dell’assemblage e della monocromia rappresenta una delle più potenti metafore delle possibilità trasformative dell’arte che il XX secolo abbia saputo elaborare. In quest’ottica, la mostra bolognese si configura non soltanto come un’interessante operazione di riscoperta critica, ma anche come spunto di riflessione sulla necessità di nuovi paradigmi creativi capaci di trasformare gli scarti della civiltà in germi di futuro sostenibile.
Info:
Louise Nevelson
30/05/2025 – 20/07/2025
A cura di Ilaria Bernardi, promossa da Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Opera Laboratori e Associazione Genesi nell’ambito del progetto Genus Bononiae
Palazzo Fava
Via Manzoni, 2 – Bologna
www.genusbononiae.it
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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