Nella mostra Le Mangiatrici di terra, Pamela Diamante (Bari, 1985) costruisce un articolato dispositivo visivo e concettuale che intreccia estetica e politica, ridefinendo il corpo – in particolare quello femminile, queer, subalterno – come spazio semantico e performativo di resistenza. A partire da una rielaborazione critica dell’immaginario meridionale, l’artista trasforma l’insulto in dichiarazione, il margine in topografia viva, risignificando la geografia del Sud come luogo generativo e genealogico. La mostra, in corso presso la Galleria Gilda Lavia di Roma, si articola in una costellazione di presenze incarnate, che non si lasciano rappresentare ma agiscono, perturbano, interrogano. L’intervento visivo si apre così a una molteplicità di linguaggi – dalla scultura alla moda, dal suono alla performance – mettendo in crisi la verticalità dello sguardo e inscrivendo l’opera in una dimensione relazionale e intersezionale. Il lavoro di Diamante si colloca, dunque, all’intersezione tra memoria, affermazione identitaria e critica del potere simbolico, dando voce a soggettività plurali attraverso una pratica che è al contempo poetica e politica, estetica e posizionale.

Pamela Diamante, photo Paolo Biava, courtesy of the artist
Giuliana Schiavone: Il titolo Le Mangiatrici di Terra agisce come un rovesciamento semantico e identitario, trasformando un epiteto denigratorio in dichiarazione di resistenza e appartenenza. Qual è stata la prima immagine, parola o urgenza che ha dato origine al progetto?
Pamela Diamante: I numerosi fattori discriminatori che ho spesso subito in quanto meridionale sono stati la spinta iniziale che mi ha portata ad analizzare e comprendere come il Sud Italia sia tutt’ora soggetto a dinamiche di matrice coloniale. Una lettura particolarmente significativa in questo percorso è stata Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno di Carmine Conelli, che mette in luce gli intrecci di potere alla base della subalternità del nostro Sud, inserendoli in una prospettiva de-coloniale e collegandoli alle dinamiche dei Sud globali. Il progetto Le Mangiatrici di Terra nasce proprio con l’intento di rivendicare il proprio “essere Sud”, rompendo la narrazione inferiorizzante che da troppo tempo ci opprime e sovvertendola attraverso le lotte di chi nasce, vive o attraversa il Sud. Si tratta, finalmente, di un Sud che si autorappresenta, costruendo una nuova percezione di sé: consapevole, autonoma e resistente.

Pamela Diamante, “Le mangiatrici di terra”, Galleria Gilda Lavia, Roma, installation view, photo Giorgio Benni, courtesy Galleria Gilda Lavia and Pamela Diamante
Le protagoniste del progetto – artiste, attiviste, madri, performer – portano con sé storie radicate in luoghi e lotte diverse, trasformando il tuo gesto artistico in un’azione relazionale e corale. Come si è costruito questo connubio tra soggettività diverse, e in che modo il corpo, nella tua pratica, diventa spazio condiviso di resistenza e risignificazione, anche in chiave postcoloniale e transfemminista?
Tutta colpa di Gramsci! Le sue analisi sulla questione meridionale sono state una fonte fondamentale per la nascita degli studi postcoloniali e per l’approccio de-coloniale, grazie al concetto di subalternità e di egemonia culturale. Ieri come oggi, sono ancora le classi egemoniche a stabilire cosa sia il Sud. Per questo, l’autorappresentazione attraverso le storie di queste donne e soggettività queer – paladine della precarietà – è di vitale importanza. Mi definisco transfemminista perché, nella nostra società, non vedo altro posizionamento possibile. Tra le nostre Mangiatrici di terra c’è anche Nicole de Leo: artista, attrice, attivista e vice-presidente del MIT – Movimento Identità Trans. Ricordo bene le sue prime parole durante il nostro incontro: «Devo ringraziare, prima di tutto, di essere ancora viva». In effetti, le donne trans continuano a essere tra le vittime più vulnerabili della violenza omotransfobica.
La tua ricerca sembra entrare in risonanza con il pensiero gramsciano e con le teorie dei Subaltern Studies, in particolare con l’interrogativo posto da Gayatri Spivak: “Can the Subaltern Speak?”. Come si è sviluppato, in fase progettuale, il rapporto tra elaborazione teorica e restituzione visiva delle storie individuali?
La teoria di Spivak introduce un’ambiguità fondamentale nel progetto. Nelle fotografie delle Mangiatrici di terra, appare una fresa agricola in ferro: il confine tra museruola e protesi, tra costrizione e strumento di lotta, è sottilissimo. Ed è probabile che sia l’osservatrice stessa a determinare l’interpretazione. La mia intenzione, tuttavia, era quella di dotare questi corpi di un megafono forgiato dalle stesse lame che smuovono la terra. Spivak adotta il concetto gramsciano di subalternità e vi intreccia la questione di genere: le donne subiscono così una doppia subalternità. Nel mio caso, però, queste attiviste non solo riescono ad autorappresentarsi, ma mettono in atto piccole e grandi rivoluzioni capaci di trasformare il nostro quotidiano.

Pamela Diamante, “Le Mangiatrici di terra”, 2024. Fresa meccanica in ferro e acciaio e stampa su carta cotone montata su dibond, cm 96,5 × 73,5 × 5,5. Courtesy Pamela Diamante and Galleria Gilda Lavia, ph Sarthak Chakraborty; Pamela Diamante, “Untitled”, 2023. Ceramica smaltata e ferro, cm 98 x 28 x 8. ph Sebastiano Luciano. Courtesy Pamela Diamante and Galleria Gilda Lavia
L’intersezione tra linguaggi – fotografia, scultura, moda, sonorità sperimentale – produce un ambiente multisensoriale e stratificato. Quale valore attribuisci a questa transmedialità, e in che modo essa contribuisce alla costruzione di un’estetica non normativa e di un nuovo immaginario del Sud?
Nella mia pratica artistica, l’ibridazione dei linguaggi è un processo naturale – e talvolta necessario – per restituire la complessità degli stati che intendo rappresentare. In questo progetto, in particolare, ho voluto giocare con il simbolismo della fresa agricola, caricandola di un valore quasi assoluto per evocare il Sud, o meglio, l’idea di Sud. Nell’installazione Corpi in rivoluzione, ad esempio, le zappette sono realizzate in ceramica: trecento elementi bullonati a steli rotanti in ferro grezzo. Con questo contrasto, cercavo un equilibrio tra forza e fragilità – lo stesso che attraversa e definisce le vite delle nostre attiviste.
Le Mangiatrici di terra propone una contro-narrazione del Sud, non più visto come periferia, ma come archivio vivo e spazio generativo. Quali traiettorie future immagini per questo lavoro? E come pensi possa dialogare con altri contesti geopolitici, anche fuori dall’Italia?
Questo progetto continuerà a vivere nei prossimi anni, attraverso nuovi incontri, confronti e storie da raccontare. Abbiamo ancora un intero mondo da decolonizzare, e tutte le lotte politiche condividono, in fondo, la stessa tensione verso la liberazione. Credo che proprio questa volontà comune sarà il punto di unione.

Pamela Diamante, “Le mangiatrici di Terra”, Galleria Gilda Lavia, Roma, installation view, photo Giorgio Benni, courtesy Galleria Gilda Lavia and Pamela Diamante
Il tuo lavoro, sia artistico sia curatoriale – penso in particolare al Bari International Gender Festival, di cui curi il Focus Arte Contemporanea, insieme alla direzione artistica di Tita Tummillo e Miki Gorizia – rappresenta una delle realtà più attive nel panorama meridionale, contribuendo da anni a costruire spazi di riflessione e trasformazione. Cosa significa, oggi, operare attraverso l’arte in un territorio come il Sud?
Il Bari International Gender Festival è da undici anni un presidio culturale e artistico che, attraverso un approccio multidisciplinare, esplora le questioni contemporanee mettendo al centro i corpi e le identità, in una prospettiva intersezionale. Curare il Focus rappresenta, nella mia pratica, un ulteriore atto di posizionamento a Sud. Ogni anno scelgo di invitare artiste e artisti internazionali le cui ricerche siano radicali, con un forte impatto sociale e politico. Tra questi: Franko B., Regina José Galindo, il Collettivo Democracia. Sono profondamente convinta che le nuove generazioni rappresentino il vero potenziale trasformativo. Per questo considero la mia scelta di vivere al Sud e di operare in questo territorio come un’azione politica a tutti gli effetti. Finalmente il Sud non è più soltanto un luogo da cui partire, ma un luogo in cui tornare per costruire nuove visioni, nuove possibilità, nuove prospettive.
Info:
Pamela Diamante. Le Mangiatrici di terra
5/05/2025 – 05/05/2025
Galleria Gilda Lavia
Via dei Reti, 29/C – Roma
www.gildalavia.com
Storica dell’arte, docente, critica e curatrice, la sua attività si sviluppa tra ricerca, insegnamento e progettazione culturale, con un focus sull’arte contemporanea nelle sue intersezioni con le teorie femministe e la cultura visuale. La sua ricerca dottorale presso la Universidad de Alcalá (Spagna) esplora le pratiche artistiche contemporanee attraverso una prospettiva interdisciplinare, con particolare attenzione alle dinamiche di riscrittura del pensiero femminista nell’arte. Autrice di saggi e articoli per riviste nazionali e internazionali, partecipa regolarmente a convegni e progetti espositivi. Fa parte della rete Mexicanistas, Académicos & Investigadores, promossa dall’Ambasciata del Messico in Italia.
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