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Nature Abhors a Vacuum. In Studio con Marco Giord...

Nature Abhors a Vacuum. In Studio con Marco Giordano

Viziate attribuzioni antropiche e processi di creazione partecipata permeano la produzione dell’artista Marco Giordano, che lo scorso ottobre ha inaugurato Pathetic Fallacy presso Il Colorificio, Milano. La mostra, visitabile fino al 17 dicembre 2017, si compone di un’installazione di lampade da coltivazione LED e cinque filamenti di silicone (Duuuude, 2017). Lo incontro nel suo studio di Glasgow per una conversazione.

Giulia Colletti: Inizierei la nostra conversazione prendendo a pretesto la locuzione inglese Nature Abhors a Vacuum. Con la dovuta (de)contestualizzazione, questa espressione contiene due fattori che ritengo centrali nella tua mostra. Il primo, riguarda la suggestione secondo cui la natura sia in grado di ‘aborrire’, di provare un impulso tipicamente umano che in realtà è su di essa proiettato. Il secondo è legato alla tua capacità di rifuggire, attraverso un’attenzione allo spazio, il vuoto. Ci sei riuscito in Cutis (2017) e adesso in Pathetic Fallacy, creando un’installazione totalizzante dallo spettro ultravioletto.
Marco Giordano: Più che rifuggire il vuoto, l’intento di Pathetic Fallacy è creare un’atmosfera che rimandi a uno stato d’essere interiore, ma che mantenga la relazione con l’esterno. Il titolo fa eco al termine letterario coniato da John Ruskin in Modern Painters. Con esso, l’autore si riferisce all’attitudine di attribuire pose antropomorfe agli elementi della natura. Ho accentuato la questione dell’antropomorfismo scegliendo il silicone che nella longiformità dei Duuuude può rimandare a un intestino o altre forme che connettono pavimento e soffitto della galleria. La lettura antropomorfa è delicatamente esasperata anche da The Room and The Wind (2017), breve componimento che ho realizzato per la mostra, dal testo critico di Stefano Collicelli Cagol, e dalla distopica intervista a cura de Il Colorificio (Michele Bertolino, Bernardo Follini, Giulia Gregnanin). In Pathetic Fallacy più che aborrire, la natura del progetto provoca un disagio percettivo nei visitatori, che Stefano ha abilmente definito come “uniche cavie organiche di questo laboratorio artificiale.”

G.C.: In The Natural Contract (1995), Michel Serres afferma: “a partire da oggi, la Terra ha una nuova scossa: non perché si sposta e si muove nella sua instancabile, saggia orbita, non perché sta cambiando, dalle sue placche profonde al suo incarto di aria, ma perché si sta trasformando a causa del nostro fare”.
M.G.: Il limite della Pathetic Fallacy è che imponiamo strutture umane agli agenti che ci circondano, de-animandoli per scopi utilitaristici e animandoli per scopi d’intuibilità. Il nostro voler riportare tutto al piano della comprensione porta a familiarizzare sì, ma anche a colonizzare i processi naturali. Come nel caso dell’utilizzo delle lampade da coltivazione LED, le quali possono essere regolate nella loro intensità per meri fini di produzione agricola. Questo conduce a una nevrotica oggettivazione e soggettivazione. Ci avviciniamo a qualcosa che non capiamo e nel farlo lo rendiamo oggetto diverso e uguale a noi. Questa forma di attrazione-repulsione è presente nel movimento schizofrenico dei Duuude in silicone. Originariamente, l’autore Jonathan Periam usa il termine ‘dude’ per indicare un uomo di città dall’atteggiamento ostentato e distaccato. Oggi sappiamo invece che nello slang americano questo termine è adottato per riferirsi a un individuo che ci è familiare. Ecco, trovo l’elasticità della parola e del silicone congeniali alla sensazione di repulsione e attrazione che proviamo e dimostriamo per gli agenti organici e inorganici presenti in natura.

G.C.: La tua può essere definita – utilizzando un’espressione di T.J. Demo – un’estetica intersezionalista, in quanto il tuo lavoro non dà la priorità alla sola esperienza di contemplazione all’interno di una galleria, ma emerge a partire da una ricerca condivisa con il pubblico. Penso ad esempio a LifeisFullofSurprises (2016) o al più recente Self-fulfilling-ego (2017), che hai definiti processi in creazione, in quanto dati dalle diverse prospettive e collaborazioni con individui e pubblico chiamati ad innescare il processo artistico.
M.G.: Self-fulfilling-ego, in particolare, si rivela come un processo più che un’opera d’arte tout court. All’inizio di quest’anno, sono stato invitato dal curatore della Jupiter Artland di Edimburgo, John Heffernan, a realizzare un’installazione all’interno della proprietà che circonda la Bonnington House, acquistata da Robert e Nicky Wilson nel 1999, oggi fondazione d’arte contemporanea. Sebbene alcuni artisti invitati abbiano negli anni operato in chiave fisica, ponendo un artefatto nell’ambiente, la mia intenzione era opposta. Non di creare una materialità imposta allo spazio bensì provocare una reazione della natura sull’artefatto. Questo si è rivelato possibile attraverso un processo di ricerca intrapreso in collaborazione con i due fondatori e i visitatori del parco.

G.C.: Perché questo titolo?
M.G: Self-fulfilling rimanda al concetto di profezia che si autodetermina. Ho riletto tale intuizione, tanto cara alla sociologia, nelle diverse fasi di Belief, Thought, Behaviour, Result, riferendole all’Ego come stato di coscienza, come atto di esistere nel mondo appartenente a qualsiasi essere vivente. Seguendo questo processo, ho chiesto a un gruppo di visitatori del parco, dalla poca o nulla esperienza pregressa in disegno, di partecipare ad una sessione di pittura alla presenza di Robert e Nicky Wilson. In tale occasione, il ruolo dei due si è tradotto in una partecipazione attiva, poiché a un tempo modelli e lettori del testo The White Bird di John Berger durante la sessione. Il Belief è quindi riferito alla fiducia riposta in un processo di cui non avrei potuto prevedere lo sviluppo, ma che avrebbe comunque determinato se stesso in seguito.

G.C.: C’è un passaggio di The White Bird, nel quale John Berger cerca di descrivere l’emozione estetica individuando e descrivendo cinque qualità degli uccelli di legno che “quando indifferenziati e percepiti nel loro complesso, provocano un senso momentaneo di mistero”.  
M.G.: Se per John Berger le qualità sono rappresentazione figurativa, rappresentazione simbolica, rispetto del materiale utilizzato, unità formale ed economia, in Self-fulfilling-ego queste sono sostituite metaforicamente dai connotati facciali dei due proprietari, che ho chiesto ai visitatori di rappresentare su carta: occhi, bocca, capelli, naso, orecchie. Ho lavorato post sui disegni, riportandoli in studio su scultura. Questa fase si è rivelata come uno stato di meditazione, di Thought appunto, durante la quale ho sperimentato con i diversi materiali recuperati in giro che non sapevo come si sarebbero relazionati tra loro. Ad esempio, ho utilizzato dei semi per ricreare un casco di capelli. Sono tornato qualche settimana fa a Jupiter e quei semi sono quasi tutti germogliati. È un processo non finito, un Behaviour che è portato avanti da qualcuno o qualcosa all’infuori dal mio ego ma che ritorna a me, facendone io parte. Ma anche al pubblico, che attraversando il viale d’ingresso alla fondazione è investito dal vapore acqueo (attivato da un motion sensor) che le sculture create emanano. Ho deciso di chiudere il processo con una pubblicazione, risultato che in qualche modo si lega alla sessione di lettura iniziale.

G.C.: I tuoi lavori esprimono una tensione tra effimero e duraturo, investigano la sottile linea tra ownership and authorship, e a tratti si rivelano performativi. Essi si definiscono come processo collaborativo, che ti connette al visitatore e lo rende il vero catalizzatore dell’opera. Cambiando l’ordine degli addendi, il tuo ruolo e quello del pubblico, il risultato è di volta in volta diverso. E questo sembra essere accaduto durante la tua ultima residenza, presso il CCA Centre for Contemporary Arts di Glasgow.   
M.G.: La residenza alla CCA è stata occasione per enfatizzare la relazione con il pubblico, per puntare sul senso di spontaneità che deriva dalla ‘ri-produzione’. Ho lasciato la porta del mio studio aperta, con l’intenzione di accogliere quanti più visitatori possibili e proporre loro uno scambio, linguistico e visuale. Ho chiesto di realizzare un collage che giocasse con una delle sette congiunzioni coordinative della lingua inglese, talvolta tradotte dai visitatori stessi. Il design era del tutto indeliberato e anche qui i visitatori non possedevano esperienza pregressa. La mia risposta a tale loro impegno è stata riprodurre queste opere su alcuni banner, cucendo e accostando un connettivo all’altro. Congiungere dei connettivi, rendendoli il vero fulcro della relazione. Il mio volere imparare a cucire si è rivelato una forma di interazione: anche io un amateur del mio lavoro, privo di esperienza pregressa ma guidato soltanto dal processo.

Giulia Colletti

Marco Giordano, Self-fulfilling-ego atto III Behavior, Jupiter Artland, Edimburgo 2017 foto di Ruth Clark

Marco Giordano, Conjunction Lab, CCA Glasgow, collage realizzato da un visitatore, “but” in Coreano

Marco Giordano, Self-fulfilling-ego atto II Thoughts, Jupiter Artland, Edimburgo 2017 foto di Ruth Clark

Marco Giordano, Pathetic Fallacy, installation view, Il Colorificio, Milano 2017 foto di Filippo Gambuti

Marco Giordano, Cutis, Project Room, Glasgow (UK) 2016. Pellicola di protezione in vetro, cablaggio, pannello di illuminazione LED, sensore di movimento, lattice e perspex, foto di Claudio Giordano

Marco Giordano, Pathetic Fallacy, Il Colorificio, Milano 2017 foto di Filippo Gambuti


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