Esiste una linea nascosta che percorre tutte le opere di Nina Silverberg (Roma, 1994). Nella mostra personale intitolata Homesick – che la galleria romana Monti8 ha in programmazione fino all’11 giugno 2025 – tale linea scivola lenta per distendersi rarefatta in una pittura grande quanto un fazzoletto aperto, attraversando architetture, sfiorando pagine di volumi, aprendo finestre e socchiudendo cassettiere. Anche se velata, è certamente possibile immaginarne gli sviluppi, ha un profilo netto e mai incerto, lavora per definire le geometrie di soli alcuni soggetti.

Nina Silverberg, “Homesick”, installation view, courtesy Monti8, Roma, ph. credit Giorgio Benni
Così, sebbene la traiettoria della linea sia abbastanza prevedibile, non replica e neutralizza indistintamente quanto attraversa, bensì opera per unire prospettive di uno stesso elemento, svelando come l’atto di ripetizione sia il rituale di una intera ricerca. Eppure, sembra che l’interesse di Silverberg sia proprio quello di fissare l’assenza. Le pagine dei libri sono prive di scritture, nelle architetture tutto è immobile, le finestre chiuse, socchiuse o spalancate esulano da ogni veduta paesaggistica sino a trasformare la tranquillità abitativa in una soglia metafisica in cui esiste solo il silenzio. Cosa è accaduto e cosa sta per succedere? Quanta vita è passata in questi spazi e quanta ne passerà ancora? Forse nessuna, perché in tale totale semplicità formale non esiste alcun psicologismo, nessuna presenza, una lontananza abissale dalle questioni umane per rivelare una pittura che si nutre del culto dell’assenza.

Nina Silverberg, “Homesick”, installation view, courtesy Monti8, Roma, ph. credit Giorgio Benni
Le tele di Silverberg sono semplici e spontanee. In questa pittura, ridotta all’essenziale e priva di furbizia, i toni sono modulati su pochi accostamenti terrosi, disposti in campiture esatte, quasi come se fossero distribuiti da un piatto strumento timbrico. Lo spazio è geologico, ovvero indaga lo sviluppo delle forme nello scorrere del tempo sino a creare una stabile tensione tra l’immobilità e una loro possibile mutazione. Per la pittrice, la storia delle immagini si è rappresa e tale ordinata essenzialità regola scenari di pietra in cui le case sono congelate nella durezza della loro materia e sui cui tetti cadono gocce di pioggia trattate come punte di una lancia acuminata. In questa assurda sensatezza, avviene che le cose si fanno più vere del vero, perché si svela il loro aspetto più primitivo e radicale, proprio come se ogni veduta fosse osservata per la prima volta. Ogni scena possiede una strana verità che non è né naturale né reale, poiché in questa nudità formale si trova l’origine del tutto che si avvicina al suo scarno scheletro.

Nina Silverberg, “Sight”, 2025, olio su tavola, 15 x 20 x 2 cm, courtesy Monti8, Roma
Questa condizione, che si estende al di là dei confini spaziali, ci spinge a pensare che forse per la pittura è arrivato il momento di liberarsi dallo sforzo di figurare, per raggiungere, invece, una naturale elementarità attraverso le forme più primitive e semplici della geometria euclidea. Questo è quanto avviene con Silverberg: la spazialità è l’elemento di partenza di ogni opera e più le forme sono anonime, più vengono fissate nella loro alterazione spaziale. Tuttavia, ne emerge una pittura timida, che si lascia scoprire adagio solo attraverso alcuni indizi, sembra proprio che ogni immagine si sveli come petali di fiori in fase di sboccio, pronti a richiudersi quanto prima per non perdere la loro freschezza. È un approccio inconsueto, di un’audacia ben diversa nel panorama dell’attuale pittura contemporanea, inteso a cercare una spigolosa semplificazione di quanto raffigurato, anziché la sua naturale verosimiglianza. In tutto questo, scorrendo lo sguardo alle opere risuona la domanda: c’è qualche cosa anziché il nulla? Probabilmente sì, perché nel riconoscere l’assenza di trucchi desunti dal vedutismo, la totale indifferenza tra primo piano e quinte rappresenta una realtà sì abitata, ma caratterizzata, allo stesso tempo, di una forte tensione distruttiva che muta il nulla in un elemento accogliente e distante.

Nina Silverberg, “Keepsake”, 2025, olio su tavola, 25 x 20 x 2 cm, courtesy Monti8, Roma
Ciò che più colpisce è come, appropriandosi del culto dell’assenza e del silenzio, l’artista crei forme di anonima semplicità, spingendoci a immaginare che le figure nascano come sagome autodidatte e di cui la pittrice è chiamata a spiare la nascita, accompagnandone la crescita, fino a fissare la loro infinita mutazione. Proprio come se ci trovassimo a svelare le regole di un gioco, Silverberg lavora con le forme, districandole nello spazio come nel funzionamento delle scatole cinesi: di grandezza crescente, si inseriscono l’una dentro l’altra senza seguire uno specifico ordine logico se non quello delle strutture che devono essere fissate attraverso diversi tentativi di incastro. Pertanto, nell’avvicinare lo sguardo a ogni opera, si ha la sensazione che nelle infinite possibilità delle strutture, lo spazio sia elemento plastico, materia malleabile che cessa di essere astrazione.

Nina Silverberg “Now”, 2025, olio su tavola, 20 x 15 x 2 cm, courtesy Monti8, Roma
Così, analizzando le pitture, le antinomie proseguono, la somiglianza è resa attraverso mezzi non somiglianti, il trattamento del paesaggio avviene in modo arcaico e con una chiara spazialità illusiva, mantenendo un’assenza in scala delle distanze e il succedersi dei piani in profondità. Gli antichi luoghi cittadini delle schematiche città medievali di Ambrogio Lorenzetti e le dolcezze plastiche dei panneggi di Simone Martini ritornano ai nostri occhi. Proprio come loro, Silverberg non illustra il paesaggio bensì il suo concetto, non una veduta ottica ma una costruzione mentale composta da diverse scale metriche. In particolar modo in questi territori anonimi e meditativi, privi di elementi topografici, la forma passa dal buio alla luce e in questa perpetua alternanza la linea segreta che percorre tutte le opere, alternativamente si distende e tende verso virtuali mete metafisiche.

Nina Silverberg, “Homesick”, installation view, courtesy Monti8, Roma, ph. credit Giorgio Benni
È la linea della nuda vita: dinamica, pura, anche se viaggia lenta tra le forme tagliandole di netto in maniera rigorosa, alcune volte ne calca le linee sinuose sino a trasformare i rapporti meccanici in conformazioni pure. Si tratta di una pittura lineare e caricata di uno specifico peso solido, spogliata da qualsiasi ornamento e ridotta a traccia. Pertanto, Silverberg ritorna a svagarsi con le forme abitative, non per restituirle al loro uso canonico, ma per liberarle definitivamente affinché lo studio diventi un’azione della stessa purezza e timida innocenza del gioco, con un nuovo valore ancora più vivido e nudo, in quanto simbolo di affermazione, presenza e pensiero.
Info:
Nina Silverberg, Homesick
07/05/2025 – 11/06/2025
Orari di apertura: dal martedì al venerdì dalle 15.00 alle 18.00
Monti8
Via degli Ausoni 57, Roma
www.monti8.com

Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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