L’oggetto quotidiano come campo di battaglia estetico: è questa, forse, una delle sfide più persistenti dell’arte dell’ultimo secolo. Quando un artista decide di appropriarsi di elementi tratti dalla realtà non compie un semplice gesto di prelievo, ma innesca un cortocircuito semantico che mette in discussione la nostra percezione del mondo. L’oggetto reale, decontestualizzato e trasfigurato, diventa specchio delle nostre ossessioni, dei nostri vuoti, delle infinite narrazioni che attraversano la società in cui viviamo. A partire dai ready-made duchampiani, l’arte ha interrogato lo statuto dell’oggetto, trasformando il banale in sublime attraverso il puro atto della scelta. La reinterpretazione che gli artisti contemporanei operano ai nostri giorni va oltre il semplice gesto dadaista: non si tratta più soltanto di sfidare l’istituzione artistica, quanto piuttosto di leggere l’oggetto come un testo denso di significati stratificati, un palinsesto su cui si iscrivono le contraddizioni del nostro tempo.

Marco Sisto, “Dittico di Bici”, 2022, tecnica mista su tela di juta, 40 x 40 cm, courtesy the artist and Studio la Linea Verticale; Giulio Delvè, “These things happen”, 2017, manici di ombrello e ceramica, 88 x 34 x 34 cm, courtesy Collezione Ghigi & Kappa-Nöun
Gli oggetti che popolano le nostre vite sono portatori di una doppia natura: da un lato rispondono a funzioni pratiche, dall’altro sono veicoli di identità, status, desiderio. Quando l’artista li sottrae alla loro funzione originaria – deformandoli, moltiplicandoli, ibridandoli – opera una sorta di autopsia simbolica che ne rivela la natura più profonda, invitandoci ad acuire il nostro sguardo sulle cose cose, riconoscendo che la realtà non è mai neutra e che ogni suo aspetto attende di essere letto, interpretato e reinventato. Riflette su queste tematiche la mostra collettiva Objectifiction, con cui Studio la Linea Verticale apre la nuova stagione espositiva dopo la pausa estiva. L’esposizione fa dialogare i lavori di quattro studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna – Luca Angeloni, Andrea Mirra, Ilaria Pulcini e Marco Sisto – con tre opere della Collezione Ghigi firmate da Giulio Delvé, Jonathan Monk e Mike Nelson ed è curata dal Collettivo Cumarina (Nicla Dallago, Emma Gosparo, Valentina Lai, Emma Pinardi, Valentina Soldo) composto da studentesse del Biennio di Didattica dell’arte e mediazione culturale del patrimonio artistico, con la regia di Marinella Paderni.

Jonathan Monk, “Thieves Remains #23”, 2009, metallo smaltato, 71 x 106 x 48 cm, courtesy Collezione Ghigi & Kappa-Nöun
Il titolo della mostra riprende un concetto teorizzato da Hito Steyerl in Duty Free Art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria (2018), in cui la metafora delle zone franche aeroportuali descrive la condizione contemporanea dell’arte, oggi costretta a operare sempre più in un ambito deterritorializzato e immerso nei flussi del capitale globale. In questo saggio il termine objectification viene utilizzato per indicare un processo in cui l’arte non è più primariamente un prodotto culturale o estetico, ma un veicolo di investimento, una sorta di valuta alternativa esentasse in cui paradossalmente le opere, mentre vengono trattate come merci, subiscono una progressiva smaterializzazione: sigillate nelle loro casse, di rado viste ma oggetto di scambi continui, sono fruite con modalità che le assimilano a dati, certificati di proprietà, voci in portfolio. Da questo concetto deriva objectifiction, neologismo coniato da Steyerl fondendo “objectification” con “fiction”, per indicare un’operazione ancora più complessa della semplice oggettivazione: gli oggetti (incluse le opere d’arte) non vengono solo reificati, ma la loro stessa realtà materiale viene in qualche modo “finzionalizzata” o costruita attraverso narrazioni, speculazioni e proiezioni di valore, al punto da far collassare, nell’economia finanziaria contemporanea, la distinzione tra valore “reale” e valore “fittizio”. Il termine esprime una critica tagliente suggerendo come l’oggettivazione nell’era del capitalismo finanziario non produca più oggetti dotati di presenza materiale, ma finzioni di oggetti, simulacri il cui valore, pur essendo soltanto performativo e narrativo, innesca di rimando un processo di creazione di realtà attraverso la fiction finanziaria.

Jonathan Monk, “Thieves Remains #23”, 2009, metallo smaltato, 71 x 106 x 48 cm, courtesy Collezione Ghigi & Kappa-Nöun; laria Pulcini, “In-attese”, 2025, acqua, gelatina alimentare, amidi, miele, aceto, prezzemolo, dimensioni varie, courtesy the artist and Studio la Linea Verticale
Il fatto che gli oggetti esistano simultaneamente come cose concrete e come costruzioni narrative (e finanziarie, nella riflessione di Hito Steyerl), ha suggerito al collettivo curatoriale di investigare il margine di ambiguità e di interpretazione di opere, realizzate da artisti di generazioni diverse, in varie accezioni scaturite dall’intento di materializzare un’idea in un oggetto concreto nel modo più fedele possibile alla realtà. La “reifinzione” a cui allude il titolo della mostra, dunque, è intesa in senso più ampio rispetto al testo dell’artista tedesca come la capacità degli oggetti quotidiani di trascendere la loro funzione d’uso per farsi strumento di narrazione e critica, mostrando come l’arte li possa sottrarre alla logica consumistica e restituire loro nuovi significati, trasformandoli in strumenti di racconto, memoria e resistenza poetica. Le opere esposte partono da elementi di recupero smontati, assemblati, riconfigurati, replicati o manipolati con modalità diverse, la cui giustapposizione è utile a esplicitare il continuo movimento di andata e ritorno dalla cosa all’opera che la loro esistenza implica, a dimostrazione di come la materialità del quotidiano sia tutt’ora una fonte inesauribile di riflessione critica e di sperimentazione formale. Il percorso espositivo introduce con efficacia il visitatore in questo ragionamento proponendo due versioni differenti del medesimo oggetto, in entrambi i casi materializzato per sineddoche.

Luca Angeloni, “Ruspa”, 2024, tecnica mista su tela, 170 x 270 cm, courtesy the artist and Studio la Linea Verticale
Nel Dittico di Bici (2022) di Marco Sisto la bicicletta è rappresentata su sfondo monocromo giallo attraverso i ritratti dei suoi manubri, realizzati con uno stile iperrealista ambiguo tra il rendering progettuale e il sogno lucido come sperimentazione di una riproduzione materica legata al tema della memoria. Nella scultura di Jonathan Monk (Thieves Remains #23, 2009), invece, lo stesso oggetto è impersonato dal suo telaio privato di tutti gli elementi funzionali: in questo caso la sottrazione, anziché depauperare l’oggetto, ne amplia il campo semantico, trasformandolo in una sorta di scheletro urbano evocativo dei processi di degrado e oltraggio a cui sono sottoposte le cose abbandonate, ma anche di un misterioso antropomorfismo, insito tanto nella struttura quanto nel labile ricordo della sua originaria utilità. L’impronta del gesto umano ritorna anche nell’opera di Giulio Delvé (These things happen, 2017), un vaso trovato da cui escono dieci dita giganti, ciascuna ricavata dal paziente intaglio dei manici degli ombrelli contenuti al suo interno, un’allusione al passare del tempo nella surreale coincidenza tra il soggetto dell’opera e gli utensili (umani) impiegati per realizzarla.

Mike Nelson, “Amnesiac Beach Fire”, 2021, legno, metallo, plastica, 32 x 69 x 69 cm, courtesy Collezione Ghigi & Kappa-Nöun
Le opere di Ilaria Pulcini, In-attese (2025) e Cornice (2025), nascono da un’originale sperimentazione di miscele di materiali organici commestibili, come gelatina alimentare, amidi, miele, aceto e prezzemolo, di cui l’artista esplora le qualità mimetiche rispetto ad altre componenti più canoniche in ambito artistico, come la resina epossidica o il vetro. La sfida tecnica è quella di conferire una struttura a un medium di per sé refrattario a qualsiasi formalizzazione, quella concettuale la ricerca di una modalità per indurre l’osservatore ad andare oltre alla troppo ovvia tautologia tra ciò che sembra e ciò che viene rappresentato. Ha a che fare con la struttura anche il dipinto di Luca Angeloni, Ruspa (2024), una gigantografia della pala caricatrice della comune macchina escavatrice richiamata dal titolo. L’identità di questo oggetto, collegata a suggestioni di costruzione e demolizione, risuona un po’ come una dichiarazione di intenti artistica se confrontata con la variegata superficie pittorica a cui si accompagna, un pezzo di bravura notevole per un artista così giovane nel gestire gli spessori e le texture cromatiche come masse quasi scultoree in un grande formato. Nello stesso paesaggio mentale trova posto Amnesiac Beach Fire (2021) di Mike Nelson, un falò di fiamme di plastica (ricavate da un cono segnaletico stradale) promananti dall’accensione di pezzi di legno trovati in spiaggia e riassemblati, vestigia di raduni notturni, di cui recuperano l’impronta dei gesti. Circoscrive l’orizzonte l’installazione Propagazioni #2 (2024) di Andrea Mirra, composta da una serie di leporelli di uguale dimensione disposti aperti in sequenza in modo da rivelare un disegno continuo tratteggiato a china che tenta di conferire tridimensionalità a un’astrazione automatica.
Info:
AA.VV. Objectifiction
25/09/2025 – 11/10/2025
Studio la Linea Verticale
Via dell’Oro 4B, Bologna
www.studiolalineaverticale.it
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.



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