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Oliver de Sagazan: il concetto freudiano di “inquietante stranezza” diventa arte

L’arte che disseppellisce l’orrore più antico e più crudele della condizione umana: la paura della morte. Oliver de Sagazan deforma il proprio corpo a partire dal suo volto. Si trasforma, attraverso argilla e pittura, in un essere paradossale, ibrido, inquietante e perturbante, un’autentica opera d’arte vivente. Testimonia il passaggio freudiano da un corpo umano, familiare e naturale a un corpo sconcertante, sconosciuto e ignoto, spersonalizza il soggetto espropriandone la sua identità. Performances come Transfiguration o Hybridation confermano l’aspirazione da parte dell’artista di creare un’arte che pone al centro dei suoi obiettivi l’essere umano, il quale non solo prende consapevolezza della propria vita ma riflette e mette anche in discussione la totalità dell’esistenza umana. È qui che si insinua l’orrore, la paura e il terrore.

Abbiamo intervistato Oliver de Sagazan: un’opportunità per entrare nel suo universo agghiacciante.

Penso che il suo corpo sperimenti uno stato di profonda follia, di alienazione dovuto al fatto che riscopre sé stesso e ritorna alle origini dell’esistenza. Non è vero, Oliver?
La performance Transfiguration è nata dal desiderio di dare vita alle mie sculture e quel bel giorno, non riuscendoci, “lanciai il mio corpo nella battaglia”, vale a dire mi sono coperto la faccia con i materiali che usavo per dipingere e scolpire: argilla e vernice al fine di vitalizzare il mio corpo. Dopo aver visto il risultato attraverso la fotografia, ho capito che quest’atto andava ben oltre il mio desiderio: aveva rivelato delle cose molto intime delle nostre identità sotterranee e della nostra inquietante stranezza. Sotto la terra, ritorno nella mia oscurità, non so dove sto andando e le mie mani sono più veloci del mio pensiero. Allo stesso tempo, lavoro alla cieca e le immagini che offro alla visione sfuggono al mio controllo. È difficile descrivere lo stato in cui sono, proprio perché è uno stato in parte fuori controllo, in parte fuori dalla mia coscienza riflessiva. E quando arriva la fine della performance, caratterizzata dall’uso di tutta la mia argilla, sono preso ogni volta da una sensazione d’ansia e di tristezza: è andato tutto troppo in fretta, è già finito, non ero abbastanza presente, né abbastanza lontano.
La follia che esprimo nella mia performance viene da questa auto-rivelazione: in ogni istante della nostra vita, siamo totalmente accecati dalle nostre condizioni di sopravvivenza e dalla ricerca di piaceri che vanno verso questa garanzia. Insomma, viviamo come semplici vettori genetici e l’arte sarebbe finalmente oggetto di un nuovo slancio vitale.

Può approfondire il concetto di deturpazione nell’arte?
La deturpazione è un trucco per portare il mio sistema nervoso a prendere in considerazione la stranezza del mio volto umano. L’abitudine o l’abituazione, come si dice in biologia, produce una forma di anestesia del sistema nervoso. La deturpazione ha la funzione di risvegliare il nostro cervello. Se prendi qualche fibra nervosa e la ecciti, si ottiene una reazione o una potenzialità d’azione che è graficamente ben nota. Se ripeti molte volte la stessa eccitazione su quella fibra, la potenzialità d’azione diminuisce per diventare finalmente nulla. Questo è ciò che ci accade di fronte alla Vita con l’abitudine, c’è una banalizzazione della quotidianità. È così che abbiamo bisogno di ciò che Freud e Romain Rolland chiamavano Eventi oceanici, come perdere una persona cara o innamorarsi, affinché, all’improvviso, l’aspetto fantastico del nostro essere risorga nel mondo. Dentro di me penso che le tele di alcuni pittori possano produrre una sensazione analoga quando le vedi per la prima volta, una sensazione che rimane per sempre nel tuo cervello. Ricordo ad esempio che le bocche urlanti dei papi di Francis Bacon mi hanno segnato per sempre e che in quella circostanza mi hanno suscitato un sentimento di profonda verità: “è esattamente così, è proprio questo”. Ti viene rivelato all’improvisto qualcosa di molto profondo della realtà. La deturpazione nell’arte ha la funzione di creare questo elettroshock nel cervello per farci uscire dal nostro torpore.

Quali sono i modelli a cui si ispira la sua arte? Può fare riferimento ad un testo e spiegarci perché?
Arte primitiva, Rembrandt, Francis Bacon, Samuel Beckett con l’Innominabile. Quest’ultimo si è rivelato nelle mie ricerche lo strumento indispensabile per interrogare con le parole la nostra inquietante stranezza. Non conosco nessun altro testo più profondo e più poetico che faccia pensare al fatto che io sia un altro. L’energia impiegata in questo testo, per cercare di comprendere l’Innominabile che abita in noi, è la stessa che avverto nel mio lavoro quando sono sul punto di immaginare una performance come Lenfermoi che ne è fortemente ispirata. Tutto il mio lavoro in Transfiguration serve a comprendere questo innominabile che è anche un “non-rappresentabile”, il caos organico o la “Testa di carne” che viene disegnato sul mio viso ne è la testimonianza.

Cosa rappresenta per lei l’essere umano?
L’essere umano è senza dubbio la più grande opportunità per il vivente per accedere a qualche forma di coscienza di sé stessi e del mondo.

Secondo la sua esperienza, in che modo possiamo comprendere l’altra faccia della medaglia della condizione umana? Vale a dire quella più terrificante, la morte.
Dobbiamo fare con la morte ciò che fanno i judoka contro un attacco molto potente, utilizzare l’energia dell’assalitore per farlo cadere. Ad esempio, considerare la morte non solo come ciò che mette fine alla vita, ma anche come ciò che dà alla vita il suo fulgore e la sua singolarità. Che gusto avrebbe la vita se diventasse eterna: probabilmente sarebbe un obbligo molto ripetitivo. Questo è il vero significato di “questa morte vivente” di cui Antonin Artaud è il traghettatore. Qui c’è dell’altro, “La morte non ne saprà nulla”.

Ritiene che la sua arte sia sovversiva?
Come ogni artista, cerco di uscire da questa allucinazione collettiva in cui viviamo e che ci fa credere che in questo mondo tutto sia normale, mentre, in realtà, il Mondo e la nostra presenza rappresentano cose incredibilmente strane, inquietanti ma, allo stesso tempo, magnifiche.

Può parlarci della sua prossima performance “Ainsi soi Moi”? Qual è il messaggio che vuole trasmettere?
Perseverare nel proprio essere è ciò che ognuno di noi prova a fare, in ogni momento, come se fosse una necessità solamente per sopravvivere: “Devo resistere, non lasciarmi andare, continuare per sempre”. Questo principio che la vita impone ai viventi fa di ognuno di noi un vettore genetico al servizio del nostro DNA. Questa ambiguità dell’“Io è un altro” e questa tenacia, nonostante l’assurdità totale della nostra esistenza di persistere sempre di più, sono gli elementi della nostra esistenza che vorrei indagare e risaltare con l’aiuto di cinque ballerini. Rimango un pittore e uno scultore, ma la mia materia è costituita da queste marionette fatte di carne che uso per generare dei quadri viventi.

Simone Marino Cicinelli

Info:

http://olivierdesagazan.com/

Oliver de SagazanOliver de Sagazan, Hybridation, 2006

Oliver de Sagazan, Transfiguration, 1998

Oliver de Sagazan, Ainsi sois Moi, 2019

Oliver de Sagazan, L’effet de Robe, 2014

Oliver de Sagazan, Lenfermoi, 2010


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