In questa conversazione, l’artista americano Ryan Sullivan parla della necessità di esplorazione attraverso la pittura e il disegno, riflettendo sulla storia della pittura in occasione della sua prima mostra personale italiana a Palazzo Degas a Napoli, nell’ambito di Zweigstelle Capitain, il format espositivo itinerante targato Galerie Gisela Capitain di Colonia, giunto alla sua settima edizione.

Ryan Sullivan solo show at Palazzo Degas, Napoli, © Ryan Sullivan, courtesy the artist and Galerie Gisela Capitain, Cologne. Photo Alwin Lay
Concetta Luise: Puoi parlarci del nuovo corpo di lavori realizzati per la tua mostra personale a Napoli e spiegare se ci sono riferimenti diretti alla città che li ospita?
Ryan Sullivan: Non direi nello specifico a Napoli, ma piuttosto all’Italia nel suo complesso. Ho visto la mostra Siena: The Rise of Painting, 1300–1350 a The Met Fifth Avenue, a New York, mentre iniziavo a lavorare su questi dipinti, e l’ho trovata molto interessante: tutto quell’oro e quei metalli, e il modo in cui erano integrati nella pittura, piuttosto che relegati semplicemente alle cornici dorate. Così ho deciso di incorporare pigmenti metallici in questa nuova serie di opere: alluminio, rame e oro. In molti dei lavori su carta, la pittura è realizzata proprio con questi pigmenti metallici. Mi affascina l’idea di un dipinto che non solo rifletta la luce nell’ambiente circostante, ma che cambi aspetto a seconda delle condizioni luminose.

Ryan Sullivan solo show at Palazzo Degas, Napoli, © Ryan Sullivan, courtesy the artist and Galerie Gisela Capitain, Cologne. Photo Alwin Lay
Diresti che queste opere, in particolare i dipinti, hanno una qualità archeologica?
Sì. Credo ci sia una relazione con gli affreschi. Ho iniziato a pensarci osservando Pompei, vedendo tutti quegli strati riemergere sotto la pomice. Quando dipingo, penso agli strati, ma anche al tempo. Ogni pittura è fatta di stratificazioni. La differenza, forse, è che io uso questi strati come azioni che si sovrappongono, piuttosto che seguire un approccio tradizionale, in cui si parte da una base bianca e si costruisce profondità tramite velature. I dipinti sono tutti eseguiti orizzontalmente sul pavimento, ma quelli in resina sono realizzati in vassoi. In quel contesto è più simile a dipingere su vetro. Dipingo al contrario: costruisco gli strati e la luce in senso inverso. Le colature vengono prima, e il bianco, che si trova dietro tutto il resto, crea la sensazione di luce. In alcuni lavori si può notare un bianco sporco sullo sfondo: quello è in realtà lo strato finale, non il primo.

Ryan Sullivan solo show at Palazzo Degas, Napoli, © Ryan Sullivan, courtesy the artist and Galerie Gisela Capitain, Cologne. Photo Alwin Lay
Qual è l’importanza dell’atto performativo nel tuo lavoro?
Penso che la pittura sia una sorta di performance privata, e che esista uno spettro. A un’estremità ci sono opere nate da performance pubbliche, come quelle di Yves Klein, dove il risultato può vivere su una tela ma non è necessariamente pittura in senso tradizionale. Magari si collega alla storia della pittura o la utilizza come punto di riferimento, ma non è quello il mio approccio. Non vedo queste opere, con i loro materiali non ortodossi e tecniche di stratificazione, come un tentativo di realizzare una pittura “nuova” o mai vista prima. Questo mi riporta a Jackson Pollock e a tutti gli espressionisti astratti che cercavano di inventare un linguaggio e una forma d’arte completamente nuovi. Tutto questo mi interessa. Sarebbe ingenuo, per qualsiasi artista, soprattutto per un artista americano che lavora con l’astrazione, pensare di poter prescindere da una figura come Pollock. Non è possibile.

Ryan Sullivan solo show at Palazzo Degas, Napoli, © Ryan Sullivan, courtesy the artist and Galerie Gisela Capitain, Cologne. Photo Alwin Lay
Sei sempre stato attratto dall’arte americana degli anni `50 e `60. Ci sono stati altri momenti influenti nei tuoi studi artistici?
Fin dal liceo ero molto interessato a quel periodo. Mi affascinava profondamente. Più tardi, quando sono andato all’accademia, quell’interesse è continuato, ma ho anche sviluppato una forte passione per la fotografia. Mi piaceva in particolare la street photography, l’idea di catturare qualcosa all’istante, con uno scatto improvviso. Il processo di esaminare un provino a contatto e magari trovare un’immagine che coglie un momento crudo e spontaneo della vita mi colpiva molto. Con i lavori in resina che realizzo oggi — che si asciugano molto rapidamente — credo di inseguire ancora quella stessa idea: posso congelare un momento che sembra vivo? Posso trattenerlo? Questo impulso viene sicuramente dalle mie prime esperienze con la fotografia.

Ryan Sullivan solo show at Palazzo Degas, Napoli, © Ryan Sullivan, courtesy the artist and Galerie Gisela Capitain, Cologne. Photo Alwin Lay
Il gesto espressionista e il segno della mano vengono messi da parte nei tuoi lavori?
La mano c’è, ma non voglio che sia l’elemento principale perché penso sia molto difficile trovare qualcosa di veramente nuovo in quella direzione. Mi interessa usare la pittura in un modo che somigli a fenomeni naturali: come sedimenti, acqua, o cose che si vedono nella natura o nella vita quotidiana. Non controllo ogni singola goccia: è qualcosa che segue una logica propria, che tutti conosciamo, perché tutti abbiamo visto una macchia d’acqua su un marciapiede, su un muro o sul parabrezza. Mi interessa usare quei fenomeni come un lessico, un linguaggio per la mia pittura.

Ryan Sullivan solo show at Palazzo Degas, Napoli, © Ryan Sullivan, courtesy the artist and Galerie Gisela Capitain, Cologne. Photo Alwin Lay
Torniamo all’inizio della nostra conversazione. Hai definito i tuoi disegni “dipinti su carta”. Perché?
Penso che il disegno sia più un atteggiamento mentale che una questione di materiali. In questo senso, queste opere sono forse più disegni che pitture tradizionali. Sono pezzi unici, non pianificati, accadono quasi per caso. Amy Sillman una volta mi ha detto: «Tutti i miei dipinti sono disegni». In questi lavori, nemmeno io so se siano disegni o pitture, credo siano entrambe le cose. Mi piace lavorare su carta perché, quando aggiungo strati di pittura, l’acqua fa arricciare la carta e la pittura si raccoglie in certe zone. Questo diventa un catalizzatore per la composizione e mi obbliga a reagire a ciò che sta accadendo. Penso sia giusto definirli disegni, perché c’è un desiderio di ricerca, di esplorazione, che è tipico del disegno. I dipinti presenti nella stanza sono tutte esplorazioni, e in questo senso mi ritrovo molto nelle parole di Amy.
Concetta Luise
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