Nella pittura di Sabrina Casadei il paesaggio si sottrae a ogni funzione descrittiva o documentaria per affermarsi come condizione atmosferica, come spazio di risonanza tra visione ed esperienza. Le sue opere non rappresentano la natura, ma ne trattengono il ritmo, l’energia, la trasformazione. È una pittura che non cerca di raffigurare il mondo, ma di farlo vibrare: in essa, spazio e tempo si fondono in una materia fluida, porosa, dove ogni elemento – luce, vento, terra, vuoto – partecipa a un’unità sensibile. La ricerca di Casadei si inscrive all’interno di una riflessione più ampia sulle possibilità dell’astrazione contemporanea, intesa non come negazione del reale, ma come intensificazione del visibile. Come scrive Gilles Deleuze, «l’astratto non è altro che il reale, colto nella sua essenza dinamica». In questo senso, la pittura di Casadei non rinuncia al mondo, ma ne distilla una presenza latente, un’eco che si fa superficie, stratificazione, flusso. La sua è una geografia dell’impercettibile, in cui la pittura diventa spazio di emersione di ciò che normalmente sfugge – le trasformazioni minime, i passaggi d’atmosfera, il respiro delle cose.

Sabrina Casadei nello studio della pittrice Julie Poulain, 2019, ph .Max Tommasinelli, courtesy dell’artista
Nomade per vocazione, Casadei ha trasformato l’idea stessa di studio: non più luogo stabile della produzione, ma forma mobile, dispositivo relazionale, soglia percettiva. Il suo “studio” può essere ovunque: una stanza attraversata dalla luce, la riva di un fiordo, un cortile romano, una residenza remota tra Norvegia e Islanda. L’atelier diventa così una condizione mentale e situata, un luogo dell’ascolto più che della progettazione, in cui il paesaggio, i limiti materiali, l’imprevisto diventano alleati del gesto pittorico. Come nei processi di site-specificity, ciò che conta non è tanto il “dove” si produce l’opera, ma il “come” lo spazio agisce sulla sua forma. La pittura di Casadei si oppone alla velocità delle immagini che saturano il presente per proporre un’estetica dell’indeterminato e della sospensione. In un panorama dominato dal ritorno della figurazione – spesso funzionale a una comunicazione immediata – la sua pratica agisce in sottrazione: i suoi lavori richiedono tempo, silenzio, disponibilità all’ascolto. Lontani dalla retorica del gesto individuale, i suoi quadri sono dispositivi percettivi aperti, dove l’umano non è più il centro della visione, ma parte di una relazione ecologica e cosmica con l’ambiente. Sabrina Casadei ci invita a guardare oltre ciò che si vede, a sostare dentro lo spazio pittorico come si sosta dentro un paesaggio: non per orientarsi, ma per lasciarsi attraversare. La sua pittura è un esercizio di presenza e di perdita, una pratica radicale di attenzione, capace di tenere insieme mondo e pensiero, materia e respiro.

Studio di Sabrina Casadei nella campagna di Roma, 2025, courtesy dell’artista
Micol Di Veroli: Il concetto di “luogo”, in filosofia, è stato spesso associato a un’idea di limite o confine. Per te che hai sempre lavorato attraversando territori diversi, cosa rappresenta lo studio? È un punto fermo o una dimensione mobile che accompagna e stimola la tua pratica?
Sabrina Casadei: Il mio lavoro ha attraversato (e tutt’ora attraversa) più luoghi. Pensare agli studi degli artisti, storicamente e in particolare a quelli dei pittori, vuol dire immaginare luoghi di affezione e rifugio: studi stratificati, archivi di raccolta di materiali e di pensieri, ordine maniacale, caos vertiginoso. Dai primi anni di accademia ho immaginato e anche sognato di avere uno studio così. Poi per mia indole ho iniziato a viaggiare molto; da qui la necessità di avere uno studio leggero, proprio come gli abiti estivi, facile da mettere in valigia. Sono stata ospite in studi molto diversi, lo studio è stato anche la riva di un fiordo o il cortile di un palazzo. Fino a quando il nomadismo è coinciso con un ritorno nelle zone della campagna di Roma, verso il mare, dove sono nata. Da qualche tempo il mio studio è uno spazio con grandi vetrate, si sente il vento e la luce lo ricolma. Questo luogo, che per ora mi ospita, mi corrisponde forse come mai alcun altro io abbia vissuto, pur essendo stato ciascuno fondamentale nel mio percorso di ricerca.

Studio di Sabrina Casadei nella campagna di Roma, 2025, courtesy dell’artista
Le residenze all’estero rappresentano spesso un’esperienza di “dislocamento” rispetto alla routine e allo studio abituale. Come vivi questo distacco? Hai mai percepito che un determinato contesto culturale o geografico abbia risuonato in modo particolare con i temi della tua ricerca? Ad esempio, i paesaggi o i materiali di un luogo hanno mai trovato una trasposizione diretta nel tuo lavoro?
Incline a un’attitudine nomade, ho sempre vissuto le esperienze di residenza all’estero come un’opportunità per dialogare con nuovi luoghi, persone e atmosfere del paesaggio. Questa è un’esperienza che vive in un tempo altro, i ritmi quotidiani hanno una valenza doppia, tripla, soprattutto se questa è dislocata in luoghi remoti, dove la natura occupa lo spazio e il tempo in maniera assoluta. Non mi spaventa, anzi trovo propulsiva l’idea di lavorare in un nuovo spazio dove ci sono alcuni limiti: è da qui che emerge la sperimentazione verso piste inedite di ricerca. Le residenze che hanno più consolidato la mia visione sono state quelle dei paesaggi del Nord tra la Norvegia e l’Islanda, lì ho sentito di aver trovato i ritmi simbiotici con la mia pittura, una corrispondenza intrinseca, primordiale. Quando accade di intessere un dialogo così profondo con un luogo, allora la mia visione oltrepassa la dimensione della tela e mi spingo più vicina all’ambiente attraverso interventi installativi. Queste installazioni cucite, come anche la pittura, si formano partendo dall’osservazione dei luoghi, scomponendo il reale e rielaborandolo.

Studio di Sabrina Casadei nella campagna di Roma, 2025, courtesy dell’artista
Nella tua pratica pittorica, la natura non si manifesta attraverso una rappresentazione descrittiva o mimetica, ma emerge come un’entità fluida, evocativa e spesso indefinita, dove luce, materia e atmosfera sembrano dissolvere i confini tra spazio e forma. In che modo il tuo lavoro si relaziona al concetto di paesaggio, non solo nella sua dimensione visiva, ma anche in termini di percezione, memoria e stratificazione del tempo? La tua pittura potrebbe essere letta come una riflessione sulla relazione tra l’essere umano e l’ambiente, sottraendosi alla retorica della figurazione esplicita per restituire una visione più sensoriale ed esperienziale del mondo naturale?
Se guardo indietro a qualche anno fa, nel mio lavoro era presente la forma (o formazione) di un paesaggio riconoscibile, poi quella stessa forma ha iniziato a starmi stretta. Non riusciva più a contenere la potenza della Natura, la sua mutevolezza e transitorietà. Ricordo molto bene (ero in residenza in Norvegia, tappa fondamentale nel mio percorso) quando ho iniziato a sviluppare un occhio diverso, visualizzando il paesaggio come se dovessi dipingerlo da dietro, partendo dalla sua matrice atmosferica. Allenare questa visione mi permette di lavorare attraverso stratificazioni spaziali e temporali simultanee, abbracciando questa entità fluida, di cui parli e che mi sembra una definizione molto vicina al mio sentire. I flussi che animano questo movimento sono una sperimentazione e ricerca sulla e intorno alla materia pittorica. La materia interpreta la mutevolezza della natura, le corrisponde, emulando quelle forze opposte che la vivificano. Così nella mia pittura cerco di proiettare il movimento del mondo, materiale e astratto, visibile e invisibile, fisico e spirituale. Questo credo sia uno dei possibili sentieri per una certa pittura astratta, una tra le risposte allo studio dell’invisibile.

Sabrina Casadei, “Outro”, 2024, tecnica mista su tela, 210 x 230 cm, courtesy dell’artista
In un contesto in cui gran parte della pittura contemporanea, in particolare quella delle generazioni più giovani, sembra orientarsi verso una figurazione esplicita, la tua ricerca privilegia immagini sospese e non risolte. Questa scelta può essere letta come una riflessione critica sulla velocità con cui oggi le immagini vengono prodotte, consumate e interpretate?
Il mondo dell’arte, a seconda degli andamenti del mercato, nel suo calderone ciclicamente può far emergere un aspetto più di un altro. Siamo assaliti da immagini che appaiono e svaniscono a grande velocità, quindi devono avere caratteristiche di lettura e decifrabilità immediata per essere in qualche maniera efficaci. La mia postura verso questa realtà è del tutto opposta, accogliendo l’indefinito, l’inafferrabile, l’informe, l’indeterminato, come possibilità diverse di dialogo e comunicazione.

Sabrina Casadei, “Pariglie di onde”, 2025, tecnica mista su tela, 50 x 40 cm, ph. Sebastiano Luciano; studio di Sabrina Casadei nella campagna di Roma (dettaglio), 2025, courtesy dell’artista
La tua pratica artistica si distingue per un approccio ambizioso, sia nelle modalità di realizzazione sia nell’ampiezza della ricerca teorica che ne costituisce il fondamento. Quali sono le direttrici principali della tua ricerca artistica in questo momento? Hai in cantiere qualche progetto che contribuirà a una ridefinizione del tuo linguaggio pittorico o a un’evoluzione della tua pratica?
Sono molto attratta dalle pratiche sulla visione che indagano la percezione del paesaggio, per esempio l’esperienza di gruppo che Etel Adnan racconta nel suo libro Viaggio al monte Tamalpais. In uno stato tra estasi e coscienza, ricominciare a parlare di bellezza ed estetica, intese come fili che tengono legati i nostri occhi al movimento delle fronde al vento, della luce che le attraversa, che proietta l’ombra, che accoglie la terra, che confina con l’acqua, che abbraccia il cielo. Sono per me questi tentativi di cogliere e interpretare il momento nella sua interezza: «Saturare ogni atomo. Eliminare cioè ogni spreco, tutto ciò che è inerte, superfluo: rappresentare il momento nella sua interezza, con tutto ciò che comprende… Deve comprendere l’assurdo, la realtà, le cose più meschine: ma tutto reso trasparente» (W. Woolf, Diario di una scrittrice). Nella mia pratica il cambiamento si costruisce in maniera lenta e caleidoscopica, la pittura compie movimenti millimetrici, nutrendosi di tutto ciò che attraversa lo sguardo.
Info:

Micol Di Veroli (Roma, 1976) è storico dell’arte, critico e curatore indipendente. È membro dell’AICA – Associazione Internazionale dei critici d’arte. Dal 2010 è curatore della Glocal Project Consulting e collabora con diversi musei internazionali realizzando progetti volti a promuovere e a sostenere l’arte italiana all’estero.
NO COMMENT