Simone Forti. Censor Performance

Gli anni ’60 videro una radicale riscrittura dei codici della contemporaneità: l’introduzione di strategie basate su informazioni testuali, l’enfasi sulla processualità, l’abolizione dei confini disciplinari e la prevalenza del concetto sul medium generarono un nuovo modello di arte espansa che rivoluzionò in modo irreversibile ogni ambito creativo. La convergenza tra strumenti espressivi attivò una sinergia senza precedenti in una rete internazionale di coreografi, musicisti, pittori e scultori che trovò il suo epicentro a New York in spazi come il Living Theatre, l’atelier di Yoko Ono o la AG Gallery di George Maciunas. Gli incontri e le performance collettive di quel decennio rappresentano forse l’ultima convincente utopia del XX secolo, un irripetibile momento di sperimentazione, collaborazione e invenzione senza compromessi che determinò i successivi sviluppi della ricerca prolungandone le conseguenze fino ai giorni nostri.

Una figura chiave di quel periodo di rottura degli schemi fu la coreografa e danzatrice italoamericana Simone Forti, a cui la Galleria Enrico Astuni dedica un progetto speciale nell’ambito della collettiva 66|16 curata da Lorenzo Bruni con la riproposizione a cadenza settimanale di una delle sue prime azioni performate. Nata a Firenze nel 1935 da una famiglia di origine ebrea, si trasferì negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni antisemite; dopo un breve periodo di studi al Reed College di Portland dove conobbe il primo marito Robert Morris, indirizzò la sua formazione artistica all’improvvisazione partecipando al laboratorio di danza fondato a San Francisco da Annah Halprin. In linea con le tendenze minimaliste delle arti plastiche, l’intento della sperimentazione era depurare la danza dagli elementi superflui e dagli effetti spettacolari e virtuosistici per riportarla al suo campo specifico: la concezione materiale di corpi in movimento. Negando ogni codificazione prestabilita, la coreografia post moderna voleva ristabilire la dinamica critica dell’azione scenica reintroducendo il concetto di atelier, in cui lo spettacolo diventava performance e il pubblico partecipava al processo di elaborazione della pièce. I primi esiti della sua ricerca furono resi pubblici nel 1960 alla collettiva newyorkese Happenings at the Reuben Gallery dove esponevano anche Jim Dine e Claes Oldenburg: le Dance Constructions di Simone Forti si basavano sull’isolamento di movimenti tratti dal contesto della quotidianità che, riproposti come azioni singole e prive di scopo, generavano un nuovo straniante alfabeto coreografico capace di interagire con l’imprevedibilità del caso.

Il suo linguaggio minimalista liberava i ballerini dalla rigida artificialità dei movimenti coreografati e degli abiti di scena per esplorare le possibilità di auto espressione del corpo attraverso movimenti prosaici, quotidiani e presimbolici come i gesti infantili o gli atteggiamenti di animali e piante. Segmentando e ripetendo le linee andamentali individuate da ogni attività fisica spontanea, l’artista crea un senso musicale di pausa, intervallo e tempo costruendo un’armonia rituale che deriva dal rispetto della qualità specifica di ciascun movimento e sollecita l’identificazione dello spettatore. Tutto ciò che è naturale diventa materiale-movimento per un’improvvisazione che ripensa la relazione tra corpo, oggetto e spazio in una scelta consapevole tra impulsi istintivi contrastanti. Nel maggio del ’61 Simone Forti  presentò nello studio di Yoko Ono il progetto intitolato Five Dance Constructions & Some Other Things, 9 pezzi di sperimentazione con materiali prestabiliti che giovani ballerini pionieri della Postmodern Dance come Trisha Brown, Yvonne Rainer e Steve Paxton indicarono come opera ispiratrice del Judson Dance Theatre. Alla sezione Some Other Things appartiene anche Censor (performance per due persone, una pentola, viti, audio) che la Galleria Enrico Astuni ha ricevuto in prestito dal MOMA di New York che ne custodisce lo statement dietro specifica richiesta dell’artista che vuole dare al lavoro una nuova ragion d’essere.

Ogni giovedì fino al 15 maggio due performer di età diversa ripeteranno l’azione attenendosi alle indicazioni originali che prevedono il canto di un motivo popolare a scelta dell’interprete con l’accompagnamento/contrasto acustico dello sferragliare di viti contenute in una pentola metallica agitata dall’altro attore. La rappresentazione, messa in atto da persone diverse e aperta a una vasta gamma di possibili variazioni contingenti, sarà documentata da una sequenza di fotografie che testimonieranno l’unicità di ogni azione in un poster/documento inedito nel suo genere che rievoca l’atmosfera Fluxus e il suo coinvolgente imperativo al qui e ora. Nella mostra in galleria al ciclo di performance dal vivo fa da contrappunto il recente video Flag in the Water (2015) che mostra Simone Forti mentre s’immerge nelle acque del Mississippi assieme a una bandiera americana divisa in due parti, una con le stelle, l’altra con le strisce. Interagendo con il tessuto bagnato che diventa sempre più pesante e con il fiume che lambisce il suo corpo in simbiosi con la bandiera, l’artista sembra voler assumere su di sé storie e dolori delle persone che quel simbolo rappresenta per dissolverli tra le onde e restituire concretezza all’ideale di libertà che esprimeva in origine.

Simone Forti. Censor performance
Fino al 15 maggio 2016, ogni giovedì h.18.00
nell’ambito di 66|16 a cura di Lorenzo Bruni
Galleria Enrico Astuni, Via Iacopo Barozzi 3, Bologna

Simone Forti, Flag in the Water, 2015

Simone Forti, Flag in the Water, 2015

Simone Forti, Flag in the Water, 2015

Simone Forti. Censor performance, 2016

Simone Forti. Censor performance, 2016


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