Risale al 2021 la piccola pubblicazione di David Levi Strauss Perché crediamo alle immagini fotografiche, il cui titolo, sebbene manchi di un punto interrogativo, si presenta come un vivo dubbio rivolto alla fotografia, intesa come mimesi del mondo reale. Un avviso che vuole mostrare come tale pratica sia origine di una storia non conosciuta come la si vede, bensì come un dubbio sulla credenza del guardare. Tema quest’ultimo sviluppato nella personale Corpi d’aria di Stefano Cerio a cura di Stefano Chiodi, in programmazione a Palazzo Collicola di Spoleto fino al 2 novembre 2025. Nelle sale del museo sono esposte foto tratte dalle serie Aquila e Brenva, riprendenti i nomi dei paesaggi dove sono state scattate.

Stefano Cerio, “Corpi d’aria”, installation view at Palazzo Collicola, Spoleto, 2025, courtesy l’artista, ph. credit Giuliano Vaccai
Sebbene negli scenari siano assenti tracce viventi, Cerio suggerisce tale presenza, in quanto è proprio l’agire umano sommesso e invisibile a essere fotografato. Pertanto, come il disgelamento del ghiacciaio Brenva alle pendici del monte Bianco è causato da politiche globali in danno alla tutela dell’ambiente, anche la deserta morfologia del territorio inabitato tra Campo Felice, Campo Imperatore e Pescasseroli viene popolato da gonfiabili, in allusione a una forma di intrattenimento artificiale tipico della cultura di massa. Come nota Stefano Chiodi nel testo critico del catalogo edito da Quodlibet, le foto, oltre a essere una riflessione sull’ecologia di un territorio, sono un lavoro verso i suoi traumi geografici, vuoi nel graduale scongelamento del Brenva vuoi per la documentazione di una estensione territoriale particolarmente scossa dal terremoto dell’Aquila del 2009. Eppure Cerio non intende documentare, bensì decontestualizzare e ricontestualizzare con infiniti destabilizzanti rimandi.

Stefano Cerio, “Corpi d’aria”, installation view at Palazzo Collicola, Spoleto, 2025, courtesy l’artista, ph. credit Giuliano Vaccai
Quantunque la pratica del fotografo sia legata alla riflessione sul senso del luogo come entità fisica, ne scopre una percezione esclusivamente mentale con coinvolgenti e spaesanti installazioni ambientali di un mondo cerebrale carico di misterioso enigma. Pertanto la questione che si intende sollevare è quanto, per Cerio, la citata domanda di Strauss – derivante dal detto “vedere per credere” comparso per la prima volta in un manoscritto del 1609 custodito presso la Biblioteca del Trinity College a Cambridge – sia capovolta. Perciò per scoprire la morfologia di un paesaggio non dobbiamo necessariamente vederlo in fotografia: se il ghiacciaio Brenva non è più visibile, non è detto che non esista più, in quanto per il fotografo tutto ciò è ricostruibile e ancora percorribile con gli occhi. La stessa cosa nei territori dell’Aquila, i paesaggi popolati dai gonfiabili sono assurdi e, benché resi con un freddo scrupolo di oggettività, ci viene chiesto di crederli veri ancor prima di vederli dal vivo. Tutto ciò crea un ambiguo senso di sorpresa che unisce il fisico e l’irreale, così le foto si pongono non tanto come un atto fantastico e neanche come un incubo, piuttosto ci fanno pensare a una fantasia cruda, stridente all’occhio per la sua surrealtà.

Stefano Cerio, “Brenva 1”, 2023, pigment print, 110 x 140 cm, courtesy l’artista
Proprio questo trasognato scollamento con l’effettivo, assieme alla ricerca di qualcosa che è scomparso, presentato in una discordanza di elementi, ricorda l’incongruenza tipica della poetica metafisica degli anni Settanta del Novecento. In particolare quella relativa alla Fontana bagni misteriosi (1973) di Giorgio de Chirico, un progetto dedicato a una scultura urbana che affronta con acuta sensibilità la relazione tra l’ambiente cittadino e il rapporto con la natura oramai perduto. Come lo raccontano i documenti d’Archivio della Triennale di Milano, il progetto di De Chirico è «un esempio di un set di equilibrio tra naturale e artificiale». Allo stesso modo per Cerio il reale diventa una funzione della sua rappresentazione, una forma di montaggio in cui l’immagine è concepita dal punto di vista della conoscenza rispetto a cosa morfologicamente abbia segnato il territorio e la sua storia. Perciò si avvia un fatale gioco di rapporti: si guarda al complesso ma anche al macro-realismo delle rocce naturali e dei licheni e nel catalogo edito da Quodlibet viene dedicata un’approfondita lettura da parte di Riccardo Venturi.

Stefano Cerio, “Aquila 2”, 2019, pigment print, 110 x 140 cm, courtesy l’artista
Alternando lirismo e crudezza, memoria e gioco d’invenzione si genera un immaginario inenarrabile, la cui forza utopica risiede proprio nel montaggio di gonfiabili che si afflosciano e piegano con la fragilità di un corpo senza ossa. Sebbene queste plastiche siano nutrite da aria compressa, sono testimoni di una realtà drammaticamente transitoria, poiché sono pronte a morire con la preventiva consapevolezza che non saranno svago per nessun bambino. Così la domanda che sorge spontanea è: perché questi metafisici accostamenti? Ecco, la risposta non è solo nelle citate opposizioni metafisiche, bensì nell’approccio di Cerio, in quanto per essere fotografi non bisogna rimanere neutri, né tantomeno dei maestri, ma è necessario essere dei cercatori o pellegrini, forse anche dei monaci solitari con una pelle sensibile al freddo del Brenva e dell’Aquila, con un occhio che non intende cercare oltre, bensì mantenersi concentrati su ciò che è rimasto. Pertanto il suo sguardo non si rivela poi così mobile, all’inverso è frontale, di ampia veduta, capace di analizzare e acquisire un’immagine equilibrata e priva di elementi di disturbo, concentrata sulla sintesi essenziale rispetto alla narrazione.

Stefano Cerio, “Aquila 8”, 2019, pigment print, 110 x 140 cm, courtesy l’artista
Sembra che Cerio sia consapevole che la sua pratica fotografica miri a svelare, non a salvare. Eppure, potrebbe esserci il rischio di perdersi in un lavoro che rischia di diventare ripetitivo. Tuttavia, il fotografo non lo teme: in queste immagini prevale una narrazione lenta, propria di uno sguardo che scivola con calma sul paesaggio. Si tratta di un racconto sospeso di un luogo raggiunto con un viaggio di sola andata, perciò alla vista è percepibile l’odore acre della terra e quello minerale della nebbia, tutti elementi naturali che finiscono per possedere la ragione di una contemplazione verso una liturgia territoriale di ciò che è sull’orlo del termine, altrimenti in fase di sparizione. Tuttavia, nel silenzio di queste immagini non si cerca un’intima confessione e neanche il senso una denuncia assoluta, si tratta piuttosto di una storia che sconosciuta a come si suppone, è stata raccontata per crederla come la si vede. Perciò le sovrapposizioni e i montaggi paesaggistici, oltre a costruire una sinistra dimensione metafisica, spingono a chiederci se lo sguardo di chi ha vissuto dall’interno quelle terre, unisca la profondità delle sue ferite a ciò è rimasto, spingendoci a non credere più in ciò che vediamo.
Info:
Stefano Cerio. Corpi d’aria
a cura di Stefano Chiodi
28/06/2025 – 02/11/2025
Orari di apertura: dal mercoledì al lunedì 10:30-13:00 / 14:30-18:00
Palazzo Collicola, Piazza Collicola, Spoleto (PG)
www.palazzocollicola.it

Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.



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