Lena Marie Emrich (Göttingen, 1991) è un’artista tedesca di base a Bruxelles. Nella sua pratica, una combinazione di elementi scultorei, testuali e performativi innesca una riflessione sullo spazio architettonico e sociale.
Andrea Bardi: Partendo dalla tua formazione artistica, quando hai sentito il bisogno di creare? E dove hai studiato?
Lena Marie Emrich: Nella mia pratica amo rafforzare l’ipersensibilità, manipolare il nostro sentimento verso il tempo per lavorare contro la percezione di una disponibilità infinita. I miei oggetti hanno un approccio minimalista con una profondità che si scopre se si supera l’ovvio. Ho studiato scultura a Berlino, a Weißensee, con esperienze prima nello studio newyorkese di Alfredo Jaar e poi a Varsavia, nello studio di Mirosław Bałka.
A che età ti sei trasferita a Berlino? In che modo il contesto culturale della città è stato determinante per lo sviluppo della tua pratica?
Mi sono trasferita a Berlino a vent’anni. Una città vivace, aperta, con spazi per progetti e una buona scena musicale underground. Ho scelto l’Accademia Weißensee, che si basa sui principi del Bauhaus e sul dialogo tra dipartimenti. Mi piace intendere la pratica dell’arte come un luogo di scambio di conoscenze, con designer, artigiani o scienziati.
Nel tuo lavoro il tuning ha avuto un ruolo centrale. Come ti sei avvicinata a questa cultura?
Amo usare come simbolo il tipico uomo che mette a punto un’auto. La maggior parte delle persone li vede come dei machos che amano spingere il proprio ego attraverso un hobby, mentre io ho conosciuto persone che, come gli artisti contemporanei, lavorano con dedizione a un oggetto con l’obiettivo di trovare modi creativi per migliorarlo. Credo che in tutto ciò risiedano una certa bellezza e un certo valore.
Infinity Drift (2018) e A total burnout (2019) sono opere in cui l’auto perde la sua funzione, rimanendo sul posto o ripetendo un percorso all’infinito. Possiamo leggere questi lavori come riflessioni sull’inutilità del progresso?
In queste opere l’auto è strumento, non simbolo. In Infinity Drift una vettura dipinge un merletto infinito sul terreno con pneumatici pigmentati di ciano e il drone che riprende questo contro movimento crea una manipolazione della nostra percezione del tempo. In A total Burnout, l’auto scompare in pochi secondi, in una nuvola blu prodotta dall’azione di un burnout. Ho lavorato con i sentimenti immediatamente percepiti dagli osservatori, il brivido e l’adrenalina che normalmente si vedono solo su uno schermo.
A un certo punto, entra in scena il viaggio, reso ostico dalle restrizioni pandemiche. Appaiono il cielo, gli aerei e i finestrini, nel periodo a cui risale anche il tuo viaggio nel deserto di Agafay. In che misura questa esperienza ti ha influenzato?
Nel 2020 ho inaugurato Mainly Fair Later a Göttingen, un progetto che esaminava il mio desiderio specifico di stabilità attraverso il cielo. In una nuova serie ho mostrato un’astrazione dei finestrini degli aerei. All’interno della superficie stratificata l’osservatore incontrava l’uomo, mediante tracce della fronte di una persona addormentata o l’impronta digitale di qualcuno che punta il dito al tramonto. La mia residenza nel deserto di Agafay, invece, ha avuto un grande impatto sulla mia percezione dei colori e sul movimento della luce, e il programma, che aveva l’obiettivo di creare alleanze con le maestranze locali, mi ha permesso di vivere un’esperienza pura, autentica, di trasmissione di conoscenza.
Nella mostra Soft Cruelties, il tema del viaggio si lega al turismo di massa. La tua installazione, con un ombrello e una spada, è un riferimento alla “conquista” delle mete turistiche più ambite?
Nella mostra al Kunstverein am Rosa-Luxemburg-Platz di Berlino, la combinazione di intarsi e sculture crea un piccolo cosmo che riflette su temi contemporanei come il turismo di massa. L’intera mostra illustra la relazione agrodolce che si vive quando si è turisti. Un esempio può essere la rivendicazione di un territorio temporaneo conficcando un ombrellone nella sabbia o mettendo un asciugamano su un lettino a bordo piscina per assicurarsi un posto in prima fila.
Il turismo di massa, in Italia, è associato soprattutto a città come Roma o Venezia, che ti hanno ispirata per The Darkest Corners. Quali sono gli “angoli bui” della città? E come hai deciso di valorizzarli?
Nel 2023, con la curatrice Marlene A. Schenk, ci siamo confrontate con un’anomalia architettonica tipicamente veneziana, delle forme in pietra o metallo nate per impedire i furti che, nel corso dei secoli, si sono evolute per non permettere alle persone di urinare negli angoli. La serie è una reinterpretazione di queste forme in vetro, che risuona con la laguna e con l’industria del vetro di Murano, illuminando gli angoli bui e un pezzo di storia dimenticata.
Nella mostra Brace Brace, i tavolini degli aerei recano tracce di vita che mancavano nei tuoi lavori passati, così come un’esplicita coscienza della morte. A cosa è dovuto questo cambiamento?
Nei tempi incerti di oggi, l’essere in transito ha molte facce, e la mostra è un simbolo di questo sentimento. Nella serie Back Seat, le sculture sono oggetti neutri che trattengono la tensione degli sguardi estranei. Ricostruendoli e aggiungendo oggetti personali, questi diventano più intimi. Nelle foto, la performer Bianca LeeVasquez esegue la posizione Brace Brace usata in caso di emergenza sugli aerei. L’artista, però, è nel suo studio, in uno spazio privato, e l’atto diventa un paradosso, perché se si esegue questa posizione le possibilità di sopravvivenza sono bassissime.
Per concludere, che atmosfera hai respirato a Villa Lena e a quali progetti hai lavorato?
Villa Lena è un luogo mistico, un porto sicuro per ricaricarsi e far riposare la mente creativa. Mi ha ispirato molto l’approccio multidisciplinare: ho passato intere serate a discutere, con artisti di diversi settori, di arte e musica. Nel mio soggiorno, stavo facendo ricerche sull’antica tecnica del mattone: con Bianca LeeVasquez abbiamo visitato i laboratori regionali e creato i nostri salti di gatto, un’antica forma di finestra di ventilazione in mattoni di terracotta. Ricoprendoli di glassa celeste ed enfatizzando le impronte digitali degli artigiani con dettagli in metallo, volevamo esaltare la tradizione e la storia locale.
Info:
Laureato in conservazione dei Beni Culturali, attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Arti Visive presso l’Università di Bologna. È parte del team che si occupa della gestione di un noto blog di divulgazione culturale ed è inoltre contributor per Juliet Art Magazine. Crede nell’arte come spazio di recupero di una complessità perduta.
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