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Superfluo. Una riflessione sullo stato dell’arte di Maison Ventidue e MUSPA

Uno degli effetti collaterali più evidenti della pandemia mondiale di Covid-19 è stato quello di evidenziare le intrinseche fragilità del sistema dell’arte, un organismo complesso basato su relazioni che sempre più spesso nascono e si consolidano al di fuori dei contesti istituzionali. Il vuoto espositivo creato dall’obbligo al distanziamento sociale ha mostrato come sia difficile per musei, gallerie e project-space fronteggiare con una programmazione adeguata le instabili contingenze di questo periodo, le cui emergenze potrebbero essere la normalità dell’immediato futuro. Questa condizione generalizzata di sofferenza rischia in particolare di compromettere irreparabilmente la presenza micro e delocalizzata delle realtà che si occupano di ricerca e la loro capacità di sostenere le produzioni emergenti, che dalla fine degli anni ’90 hanno visto una progressiva restrizione dei finanziamenti a esse destinati. Nella generale rarefazione delle opportunità di incontro e scambio e nell’overdose di contenuti digitali che tentano supplirvi, diventa quantomai essenziale oggi immaginare un nuovo modo di produrre cultura e differenti modalità di relazione, affinché la rete che sostiene la fattibilità di una proposta artistica variegata e multidirezionale non diradi troppo le sue maglie. L’esigenza di ripensare, assieme a pubblico, critici, cittadini e artisti, il ruolo dell’arte è il motore del progetto Superfluo, sviluppato da Maison Ventidue, associazione culturale di promozione sociale fondata nel 2014 con l’intento di fare ricerca e di organizzare studi site-specific promuovendo i linguaggi delle arti performative, installative e sonore, in collaborazione con MUSPA – Museo Senza Pareti, collettivo nato nel 2020 in pieno lockdown per promuovere un’idea di museo come spazio aperto e senza pareti, in stretta relazione con l’esplorazione delle pratiche artistiche emergenti. Per approfondire l’argomento abbiamo rivolto alcune domande a Mariarosa Lamanna e Antongiulio Vergine, portavoce delle due realtà curatoriali, entrambe di base a Bologna.

Emanuela Zanon: Superfluo ha come punto di partenza la riflessione sull’essenza dell’arte di Lea Vergine, che in L’Arte è un delfino afferma la necessità del superfluo, inteso come ciò che permette all’uomo di essere un po’ felice (o meno infelice) nella vita. Nel video che avete diffuso attraverso i canali social di Maison Ventidue le parole di Lea Vergine risuonano come memento nelle stanze vuote de L’Appartamento, location fisica che dal 2019 ospita progetti sviluppati da artisti e curatori invitati a convivere per un periodo limitato di tempo e lavorare insieme. Avete immaginato qualche ipotesi di azione per colmare questo vuoto?
Mariarosa Lamanna e Antongiulio Vergine: Non è facile descrivere il significato del vuoto all’interno dell’arte: è uno spazio aperto, adatto alla sperimentazione, ma è anche l’assenza, la mancanza. Ispirandoci alle parole di Lea Vergine e a quelle di Yves Klein e John Cage riguardanti il vuoto e il silenzio come dispositivi attivi con i quali agire e reagire, abbiamo pensato al superfluo come spazio aperto a diverse e nuove possibilità di creazione. Il silenzio, abbastanza dignitoso, del mondo della cultura che prova a resistere, si sposta, muta e si reinventa, pur rimanendo (pare) tale e quale: rivisto il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, e contestualmente alla finestra gialla di febbraio 2021, abbiamo unito questo silenzio al vuoto, dando vita a Superfluo. Pur essendo un progetto in divenire, slegato quindi dalle regole di una tradizionale programmazione, in esso confluiranno sicuramente le due identità che caratterizzano Maison Ventidue e MUSPA: da una parte, l’eredità di una genesi promiscua, ibrida, aperta, relazionale e artistica che ha dato vita a performance e interventi installativi e sonori nell’habitat domestico di un’abitazione, oggi costituito dagli spazi de L’Apparamento sito in via Miramonte 4-6 a Bologna; dall’altra, una realtà nata su Instagram come spazio immaginato e immaginifico per promuovere l’arte emergente, un progetto basato più sulle relazioni possibili che sulle convenzioni o le mode, il cui obiettivo è quello di rendere il virtuale un luogo lento, di riflessione e non di uno sfrenato consumo visivo.

La complessa situazione globale che il mondo della cultura, e in particolar modo delle arti visive, sta attraversando ha fatto scaturire nuove energie progettuali, non mediate e molto più libere e diffuse da parte di artisti, collettivi, gallerie emergenti e nuovi spazi digitali. Anche il modulo adesione al progetto che state proponendo a un pubblico allargato sembra recepire un bisogno collettivo di solidarietà, in parziale controtendenza con l’individualismo imperante della contemporaneità. Come proseguirà il rapporto con chi esprimerà il suo interesse a partecipare?
Sicuramente sono mutati i bisogni del mondo della cultura e con essi anche la progettazione. Oggi, tuttavia, siamo chiamati a intraprendere direzioni orientate a colmare bisogni individuali e universali, cercando di farci interpreti di un qualcosa che unisce, compara e diffonde, e non che divide e diversifica tenendoci lontani. Riguardo agli incontri (che, date le circostanze del periodo, avverranno su Zoom) pensiamo di organizzarne almeno tre, in modo tale da dare a ognuno la possibilità di esprimersi e di dare il proprio contributo: l’obiettivo, infatti, è, prima di tutto, quello di ascoltare, accogliendo le proposte e le urgenze provenienti da tutti, anche da coloro che non fanno parte degli ‘addetti ai lavori’. Per questo stiamo definendo una metodologia di scrittura condivisa che ci auguriamo possa essere piacevole e capace di interpretare le istanze che ci riguardano sia come individui e sia come collettività. Si tratterà di una sorta di esercizio, una pratica laboratoriale che porrà al centro lo scambio di idee e la co-fondazione di principi regolatori oggi imprescindibili, sintetizzabili nel Manifesto degli spazi de L’Appartamento, con la speranza di poter incontrare presto fisicamente tutti coloro che vi parteciperanno.

Un altro obiettivo di Superfluo è stilare un Manifesto che riesca a individuare le urgenze di questo cambiamento e innescare una riflessione critica sulla cultura, l’arte e la società. Quali sono i punti fondamentali che avete individuato a riguardo?
Non abbiamo ancora individuato i punti del Manifesto perché si tratta, come dicevamo prima, di un qualcosa in divenire che stiamo approntando come risposta alla domanda provocatoria de Superfluo. Il peso del vuoto dell’arte. Certamente, punto di riferimento della riflessione saranno alcuni dei 17 obiettivi stilati dall’ONU per l’Agenda 2030, urgenze che toccano diverse sfere della nostra esistenza e che, per forza di cose, riguardano anche l’arte. Sembra paradossale, ma è così: speriamo di rendere l’arte un esercizio critico, uno strumento di benessere, di immaginazione per un futuro desiderabile e realizzabile. Non siamo interessati alle mostre di tendenza o alle inaugurazioni a tutti i costi. Vogliamo dotarci di un lessico che ci aiuti a definire i nostri bisogni e dare loro spazio e valore come principi fondanti per le nostre identità. Partiremo da qui per cercare di interpretare e abitare il vuoto e il silenzio dell’arte e della società.

Storicamente in ambito artistico l’idea di Manifesto evoca concetti oggi non molto praticati come rigore intellettuale e utopia. C’è qualche strategia in programma per far sì che il vostro possa generare un pensiero politico concreto intorno alla cultura?
Tutti i Manifesti che si sono succeduti nella storia dell’arte, pur racchiudendo una certa dose di utopia, presentavano comunque degli aspetti legati a questioni sociali e politiche, puntando, soprattutto, a una riformulazione del linguaggio – pensiamo a quelli relativi al Futurismo, al Dada, al Surrealismo e, ancor più, al Situazionismo e a Fluxus. Ogni Manifesto, come si evince dall’origine del termine, presuppone inoltre un’azione, un gesto: il nostro è stato quello di raccogliere voci e umori sullo stato degli spazi dell’arte indipendenti partendo dal peso del vuoto che questi percepiscono. D’ora in poi, proveremo insieme a trasformare questi dati in parole e pratiche di r-esistenza e comunanza valide per il dispositivo artistico de L’Appartamento, e per qualsiasi altro spazio o organizzazione no-profit. Se questo vuol dire attenersi alle regole vigenti, intraprendendo al contempo una strada che non escluda l’utilizzo di nuove tecnologie, allora è giunto il momento di immaginare altre possibilità per gli spazi dell’arte e della cultura che permettano al pubblico di fare esperienza e di creare dialogo, relazione, scambi e interazioni costruttive e orizzontali. Questo è un anticipo del secondo atto di Superfluo.

Info:

www.maisonventidue.it
Facebook: maison.ventidue
Instagram: @maisonventidue | @muspa.aperto

Superfluo. Il peso del vuoto dell'arte, Maison Ventidue & MUSPASuperfluo. Il peso del vuoto dell’arte, Maison Ventidue & MUSPA

Lea Vergine nel 2006, photo: Ramak Fazel

John Cage, 4’33” (in Proportional Notation), 1952-1953, @MoMA – Museum of Modern Art, New York

Yves Klein in collaborazione con Harry Shunk & Janos Kender, Le saut dans le vide, 1960

Yves Klein, Le Vide, Galerie Iris Clert, Parigi, 1958, ©Charles Paul Wilp, Museum Haus Lange, Krefelf

L’Appartamento, Maison Ventidue, via Miramonte 4-6, Bologna


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