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World Press Photo 2025: Dario Mitidieri riflette sul potere e i limiti dell’immagine

La fotografa palestinese Samir Abu Elouf ha vinto il World Press Photo con uno scatto a Mahmoud Ajjour. La foto ritrae un bambino di nove anni che ha perso entrambe le braccia in un raid israeliano all’inizio della guerra nella Striscia di Gaza. Molto è stato scritto e detto. Noi abbiamo intervistato Dario Mitidieri – oggi rappresentato da pepartists.comche ha ricevuto due riconoscimenti dal prestigioso World Press Photo. Uno per Lost Family Portraits (2015) e un altro per il progetto Le fosse comuni in Iraq (2003). Da tempo i bambini sono una sua rigorosissima linea di ricerca e centro poetico di molti progetti, come I bambini di Bombay (1992) e la lunga serie deI bambini in guerra (1989 – in corso).

Dario Mitidieri, “End of war in former Yugoslavia”, 1995, ph. courtesy Dario Mitidieri

Dario Mitidieri, “End of war in former Yugoslavia”, 1995, ph. courtesy Dario Mitidieri

Simone Azzoni: Ci aiuti a guardare l’immagine vincitrice del World Press Photo of the Year 2025? Cosa emerge dalla composizione, dalla scelta della luce caravaggesca? Cosa comunica?
Dario Mitidieri: Quando guardo questa fotografia, la prima sensazione che emerge è il silenzio. Mahmoud Ajjour, con i suoi nove anni, è lì, immobile, con uno sguardo che sembra distante, assente. Ha perso entrambe le braccia in un attacco aereo su Gaza. Ed è proprio quella mancanza che ti colpisce come un pugno e che contrasta brutalmente con la bellezza dell’immagine stessa. La luce che avvolge Mahmoud, calda e teatrale, sembra davvero rubata da una tela di Caravaggio, in cui il contrasto tra chiaro e ombra gioca un ruolo fondamentale nell’intensificare la drammaticità di quello che sta succedendo a Gaza. Ci obbliga a guardarlo, a restare lì. La luce lo isola, quasi volesse costringerci a guardarlo più a lungo, ad ascoltare la sua storia silenziosa. La fotografia, senza parole, dice molto di una sofferenza che affligge un popolo intero. È un ritratto potente, senza dubbio. Non c’è disperazione nel volto di Mahmoud, ma consapevolezza e resilienza. È una fotografia che porta con sé un carico emotivo enorme. Tuttavia, c’è una contraddizione. L’immagine è ovviamente costruita: ogni elemento, come la composizione, la scelta della luce, l’inquadratura; tutto sembra pensato, calibrato per evocare un determinato effetto estetico.  E questo mi fa riflettere, non sulla qualità dello scatto, indiscutibile, ma sul contesto in cui è stato premiato. La fotografia non cattura un momento casuale, ma racconta una condizione, con una certa distanza dalla realtà che il fotogiornalismo tradizionale, a mio parere, dovrebbe abbracciare: un momento colto al volo, un’emozione che non si predispone. E forse questo spostamento verso una fotografia più “costruita”, più studiata, ci allontana da quello che il fotogiornalismo dovrebbe incarnare, soprattutto quando si parla di una tragedia come quella di Gaza.

Dario Mitidieri, “Angola, a legacy of war”, 1997, ph. courtesy Dario Mitidieri

Anche tu ti sei spesso posto davanti al dolore degli altri, per esempio nelle tue tante foto che ritraggono bambini. Occorre ancora più rispetto, sensibilità. Cosa ci legittima a fotografarli? Qual è la loro forza comunicativa?
Nei miei lavori a Bombay, nei campi profughi o in altri luoghi del mondo, mi sono sempre chiesto cosa mi legittimasse a fotografare i bambini. Non c’è mai una risposta definitiva. Credo che tutto stia nello sguardo. Nel rispetto e nella sensibilità con cui ti avvicini alla loro realtà, nel tempo che dedichi ad ascoltarli, a comprendere la loro situazione. Come nel caso di Mahmoud, i bambini sono spesso le vittime innocenti in ogni conflitto. Che si tratti di guerra, di povertà o di discriminazione, sono loro a subire le conseguenze più gravi, in situazioni dove non esistono bandiere né confini. La loro forza comunicativa è enorme, proprio perché sono innocenti e vulnerabili. Ma proprio questa forza comunicativa può facilmente trasformarsi in uno strumento narrativo troppo semplice, e per questo è necessaria ancora più attenzione. Ogni bambino ha una storia vera dietro al suo sguardo, e non possiamo ridurli a simboli. Fotografarli, quindi, comporta una grande responsabilità. Dobbiamo essere consapevoli di come e perché li stiamo fotografando, riflettendo ogni volta sulla nostra intenzione. Anche dopo aver fotografato centinaia di bambini, sento che è essenziale non smettere mai di trattarli per quelli che sono: bambini, non strumenti per raccontare una storia più grande di loro.

Dario Mitidieri, “Boys holding guns”, Darra, Pakistan, 1989, ph. courtesy Dario Mitidieri

Dario Mitidieri, “Boys holding guns”, Darra, Pakistan, 1989, ph. courtesy Dario Mitidieri

Conosci molto bene il premio. Ti sembra che sia cambiato? Alcune immagini premiate negli ultimi anni sembrano ricalcare degli stereotipi visivi. Qual è oggi, secondo te, la funzione di questo riconoscimento per noi spettatori e per i fotografi?
Conosco bene il World Press Photo, essendo stato premiato due volte. Forse è proprio per questa esperienza che mi sento legittimato a farmi, e fare, alcune domande. Non voglio in alcun modo sminuire la fotografa Samar Abu Elouf o la fotografia vincente di quest’anno. La sua immagine è intensa e toccante, costruita con rispetto. E trovo fondamentale che si parli di Gaza, che si continui a mostrare quel dolore, a tenerlo sotto gli occhi del mondo. Ma la mia riflessione riguarda la natura stessa della fotografia. Per quanto importante, questa foto non è un “momento colto”. È un ritratto costruito, scattato in un luogo (Doha) che non è direttamente legato alla scena di guerra. E mentre a Gaza ci sono fotografi che hanno perso la vita raccontando ciò che accadeva, è inevitabile chiedersi se il massimo riconoscimento non dovrebbe anche tener conto di chi lavora in condizioni estreme. Non è una foto di quelle che raccontano un attimo irripetibile, l’istante che solo il fotogiornalismo può cogliere nel suo massimo realismo. E allora mi chiedo: è davvero questa la fotografia dell’anno? Per me, la foto dell’anno, nel contesto del World Press Photo, deve includere gli elementi tradizionali del fotogiornalismo: il contenuto, l’urgenza, la forza visiva e soprattutto quell’attimo irripetibile che racconta qualcosa di significativo nel preciso momento in cui accade. Aggiungo che anche io ho vinto un premio con una fotografia costruita, Lost Family Portraits, ritratto di profughi siriani in Libano con sedie vuote a simboleggiare i dispersi, era un’immagine pensata, simbolica, realizzata con il supporto di un’agenzia pubblicitaria. Si trattava di una fotografia forte, ma totalmente studiata a priori. Era forse la prima volta che un’immagine così concettuale vinceva un premio al World Press Photo. Ma almeno era stata premiata all’interno di una categoria specifica, non come foto dell’anno. Se quella mia immagine avesse vinto il massimo riconoscimento, sarei stato felice, ma anche confuso. Penso che quel premio debba restare fedele al suo DNA: premiare chi era lì, nel momento in cui qualcosa di significativo accadeva davvero. Oggi, però, vedo che il fotogiornalismo si sta sempre più spostando verso un’estetica più raffinata, con immagini più curate e visivamente riconoscibili, forse più rassicuranti per certi standard. E in tutto ciò, mi chiedo se non si stia perdendo di vista l’urgenza e la forza istintiva del reportage, che nasce dal desiderio di documentare la realtà senza manipolazioni.

Info:

www.mitidieri.com


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