In conversazione con Fabio Sargentini

Fabio Sargentini ha concesso a Juliet Art Magazine una piacevole chiacchierata.

Claudia Pansera: Parliamo dell’ultima mostra L’Attica, Quattro donne artiste. Com’è nata l’idea di questa esposizione?
Fabio Sargentini: Sui taccuini, dove io appunto di solito le idee, già qualche anno fa, nel 2017 o 2018 mi sembra, c’è riportato questo mio pensiero su L’Attica, perché anche il titolo per me è molto importante, è sempre stato importante. Questo titolo mi affascinava perché cambiando una vocale lo riportavo al femminile e dunque era qualcosa che aderiva alle artiste donne e, allo stesso tempo, L’Attico diventava l’Attica, questo insomma mi divertiva. Però poi non l’avevo fatta la mostra, l’ho appuntata solamente e adesso l’ho ritrovata in coincidenza con la Biennale attuale, impostata su tutte, o quasi, donne. Mi sono detto: da quando ero giovane ho sempre sostenuto le artiste, che facciamo qua? L’Attico non è mai stato maschilista. Ho pensato fosse giusto fare la mostra adesso. Era una cosa che avevo cominciato a progettare da tempo, sul taccuino decidevo quali erano le partecipanti. Avevo inserito una tedesca, Katharina Sieverding, che nel periodo appunto del garage di via Beccaria ha bazzicato Roma, le ho fatto pure una personale. Per inserirla però avevo sacrificato Trisha Brown. Così avrei avuto due coppie: Simone Forti e Joan Jonas come performer e le due artiste visive Marisa Merz e Katharina. L’ho cercata Katharina ma non mi ha risposto, non sono riuscito a mettermi in contatto con lei, ma sono sicuro che avrebbe tenuto a partecipare. Quindi ho riconsiderato Trisha. Ho preferito di Marisa Merz esporre un’immagine proiettata “virtualmente” perché così si amalgamava anche con i filmati delle altre tre. Sono tutte artiste che ho invitato più volte, pensa che di Marisa Merz ho fatto due personali in una: al garage e poi l’azione con l’aeroplano all’aeroporto dell’Urbe.

Ho letto che ha dedicato questa mostra a suo padre, Bruno Sargentini. Perché?
Mio padre scelse il nome L’Attico per la galleria perché era ubicata all’ultimo piano, la scelta più ovvia. Lui mi disse che in realtà avrebbe voluto L’Attica, l’Attikè greca. Oggi con questa mostra l’ho esaudito. Mi piace ogni tanto tirare in ballo mio padre. Abbiamo avuto un rapporto conflittuale però l’ha fondata lui la galleria, io stavo con lui dall’inizio, a diciotto anni imparavo velocemente. Quegli anni insieme sono stati importanti, formativi, dopo c’è stata la rottura traumatica su Pascali. Quando venne a vedere la mostra dei cavalli di Kounellis al garage dette in escandescenza, ma io sapevo che stavo facendo la cosa giusta.

Lei ha sempre combinato esterno e interno, uscendo quindi dallo spazio della galleria.
In esterno ho curato molte mostre significative, anche l’episodio di Pascali del film SKMP2, lo girammo a Fregene. Ho ideato l’Attico in viaggio sul Tevere, la galleria diventava un battello con il timone e tutte le destinazioni teoricamente erano possibili a un certo punto, perché quando prendi il battello e arrivi fino alla foce del fiume, a Fiumara Grande, vicino Fiumicino, ed entri per trecento o quattrocento metri nel mare aperto, vuol dire che puoi andare dappertutto. Anche in India siamo stati, con L’Attico in viaggio nel 1977, al quale ha partecipato il grande storico dell’arte Cesare Brandi, che si confidava con Giulio Carlo Argan chiedendogli un parere se partire o meno, perché allora negli anni Settanta l’India non era come adesso, era più esotica diciamo. E quindi sono partito con l’Attico in viaggio nel 1977 con Brandi e Vittorio Rubiu, poi c’erano Luigi Ontani, Francesco Clemente, Giordano Falzoni, alcuni allievi di Brandi, tra i quali Rosalba Zuccaro. Insomma, eravamo un bel gruppo e Cesare ci ha scritto sopra un bel libro: “Persia mirabile e discesa dal Gange”.

Dopo il viaggio in India ha iniziato a proporre i festival, giusto?
Sì, di viaggi ne ho fatti parecchi: in dieci anni sono stato dodici volte in India, cioè andavo circa due volte all’anno. Mi piaceva stare là, anche se non sono stato mai interessato alla religione indiana, al misticismo. Avevo scoperto l’India dei Maharaja. Si stava divinamente nei loro palazzi adibiti ad alberghi!

Perché scelse come spazio espositivo il garage?
Dopo la morte di Pascali, al quale dovevo la parte installativa, incontro Simone Forti e finalmente riesco ad avere una visione completa dello spazio che cerco. Pascali con il Mare aveva scardinato tutto lo spazio di piazza di Spagna e lì ho capito che dovevo assolutamente cambiare spazio. Poi, quando è arrivata Simone, mi ha portato in dote l’altra parte, quella spettacolare e performativa: ho capito che non doveva essere solo uno spazio per mostre con oggetti fermi, sculture o quadri ma qualcosa in movimento. Quindi cosa è stata la mostra dei cavalli al garage? Un’installazione spettacolare. Simone viene in Italia e nel frattempo io mi invento Ginnastica Mentale, trasformando la galleria in una palestra di ginnastica, evento al quale anche lei partecipa. Poi va via da Roma per qualche mese, ma io avevo ormai in testa l’idea di spazio espositivo. Mi sfrattano da Piazza di Spagna perché faccio Fuoco Immagine Acqua Terra, ma io comunque non batto ciglio perché so che devo andare via, perché non mi sta bene più quello spazio, non è più consono a ciò che arriva. A fine dicembre 1968 inauguro il garage di via Beccaria con dei filmati ma soprattutto il 13, o 14, gennaio, appena scattato l’anno nuovo, presento i cavalli di Kounellis, e dopo quello faccio la mostra di Mario Merz, che viene da Torino con la sua macchina e la espone direttamente invece di parcheggiarla fuori, e poi Mattiacci con il compressore, poi una mostra di Luca Patella, poi la prima mostra in Europa di Sol LeWitt, con i graffiti sul muro. La cosa buffa è che la gente entrava e non li vedeva, tanto i graffiti erano sottili, e usciva pensando non ci fosse nessuna mostra e, questo è il bello, infatti io non li fermavo. In quel momento il garage era molto forte, era pieno di realismo perché era rimasto un garage e non gli avevo dato i connotati un pochino più “leccati” da white cube, lo avevo lasciato così, il primo spazio dell’arte povera. E poi, a giugno, il primo festival di musica e danza, “Festival di danza, Volo Musica e Dinamite”, con performer americani tutti trentenni e che sarebbero poi diventati famosi, tra i quali, per l’appunto, Simone Forti e Trisha Brown. Poi a ottobre, Robert Smithson con la colata di catrame bollente giù da un dirupo sulla Laurentina, il primo intervento di Land Art in Europa e poi, a novembre, il battesimo di un giovane, Gino De Dominicis, non più “povero” ma concettuale-duchampiano: questo cambiava le carte in tavola. Tutto nel 1969, pazzesco se ci pensi. Se li analizzi una per una sono cose impressionanti! Si era creata una situazione per cui il contenitore ispirava il contenuto, cioè lo spazio con quelle caratteristiche faceva pensare gli artisti in un certo modo. Io ho avuto la visione, ma loro hanno dato il meglio nel far vivere quello spazio.

A un certo punto ha iniziato a fare teatro e qui all’Attico ne ha fatto realizzare uno tutto suo…
Ho equiparato la mostra al teatro, e infatti gli artisti utilizzano pacificamente il piccolo teatro della galleria posizionando sul palcoscenico le loro opere. Questo è sicuramente un punto di arrivo della mia esperienza. Io ho iniziato a fare teatro nel 1978, avevo imparato molto dagli americani, e mi sono sentito pronto a essere autore e regista teatrale delle mie cose. Ho esordito al Beat72 con Peter Pan: in quella cantina adibita a teatro c’erano due arcoscenici e in mezzo uno spazio vuoto. Mi è venuto in mente di installare due sipari, uno davanti a ciascun arcoscenico e lo spazio scenico nel mezzo. Il pubblico l’ho smistato: venti persone da una parte e venti dall’altra, senza che se ne accorgessero. I sipari, azionati da motorini elettrici, si aprono contemporaneamente e si crea quindi un effetto specchiante, perché gli spettatori pensavano ci fosse uno specchio e andavano a cercarsi dall’altra parte. Venivano introdotti in scena tutti oggetti che una volta installati non smettevano di muoversi: l’aquilone, la sedia a dondolo, la roulette, la freccia, l’altalena. Quando i sipari, sempre in movimento anche loro, si chiudevano, in quel momento veniva portato in scena un ulteriore oggetto. Era un’istallazione in movimento pazzesca. Questa cosa dei due pubblici l’ho proposta più volte nella mia carriera e questo si può fare quando il teatro è classico, sennò non lo puoi fare con la performance, non puoi duplicare. Questa cosa del punto di vista, di smistare il pubblico in un certo modo è cominciata allora per me. Ad esempio le performance al garage di solito erano circolarmente disposte, quelle musicali invece erano più frontali. Ma il pubblico era lo stesso del mare di Pascali: già in quella mostra potevano solo camminare rasenti il muro, a pochi centimetri dal mare, che occupava tutto il suolo, il pubblico lo spiazzavi. Tutta la vita questa postura del pubblico è stata importante. L’ultimo spettacolo che abbiamo fatto con mia moglie Elsa è stato splendido, Toga e spada, quattro anni fa. L’incipit delle note di regia cominciava così: “Teatro o cinema? Entrambe”. In quel caso avevamo trasformato la platea nel Senato romano con delle sagome sparse di senatori, e sul palcoscenico una bella sedia come fosse un trono per l’arringa. Era Toga e spada, Caterina contro Cicerone. Dov’era il pubblico, cosa vedeva? Il pubblico era posizionato nella sala attigua davanti a uno schermo. Seguiva la vicenda dal vivo attraverso la porta comunicante e, contemporaneamente, sullo schermo dove appaiono grazie a un cameraman nascosto che li filmava, gli stessi personaggi, cambiando necessariamente il punto di vista: primo piano, ripresa dall’altro, lente zoomate ecc. C’era questa presenza incredibile del virtuale e del reale insieme a creare la narrazione.

Il prossimo spettacolo teatrale?
Presto, speriamo. Vogliamo portare avanti il discorso.

Claudia Pansera

Info:

Fabio Sargentini
Associazione culturale L’Attico
via del Paradiso 41, Roma

Fabio Sargentini, ritratto, 2022. Ph. Alice Ciccarese per Juliet

Fabio Sargentini si racconta, video by Alice Ciccarese per Juliet

Joan Jonas, Festival India America, Musica e danza, 1977. Exhibition view L’Attica, quattro donne artiste, L’Attico, 2022. Ph. Alice Ciccarese per Juliet, courtesy l’artista e Fabio Sargentini

Marisa Merz, 1975. Exhibition view L’Attica, quattro donne artiste, L’Attico, 2022. Ph. Alice Ciccarese per Juliet, courtesy l’artista e Fabio Sargentini

Trisha Brown, Festival Danza Volo Musica e Dinamite, 1969. Exhibition view L’Attica, quattro donne artiste, L’Attico, 2022. Ph. Alice Ciccarese per Juliet, courtesy l’artista e Fabio Sargentini

L’Attica, quattro donne artiste, 2022, L’Attico, exhibition view. Ph. Alice Ciccarese per Juliet, courtesy Fabio Sargentini

Simon Forti, Logomotion, 2008. Exhibition view L’Attica, quattro donne artiste, L’Attico, 2022. Ph. Alice Ciccarese per Juliet, courtesy l’artista e Fabio Sargentini

Marisa Merz, 1975. Exhibition view L’Attica, quattro donne artiste, L’Attico, 2022. Ph. Alice Ciccarese per Juliet, courtesy l’artista e Fabio Sargentini


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