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Ibidem a pianobi. Le teofanie terrestri di Marco E...

Ibidem a pianobi. Le teofanie terrestri di Marco Emmanuele

Non esiste opera d’arte che rimandi a uno specifico significato archetipo, dove per quest’ultimo è da intendere la capacità dell’opera di formulare una visione del mondo che va oltre la sua rappresentazione visiva. Il filologo Walter F. Otto chiarisce la questione in maniera esplicita, nel meraviglioso volume Teofania in cui afferma che le immagini mitiche, che da sempre accompagnano la crescita dell’uomo e il suo evolversi, introiettano di per sé un potere nascosto, tale da sottintendere significati inconsci derivati da una psicologia del profondo.[1] Si può dire che seguendo questo ragionamento i miti, così come anche le iconografie pagane e cristiane da cui essi derivano, sono come delle realtà ontologiche nate da un confronto dell’uomo con l’ambiente esterno.

In pratica, secondo questa suggestiva teoria, ogni mito è da considerarsi come una emanazione del nostro essere: a tal proposito l’opera di Marco Emmanuele (1986, Catania), intitolata Iso#42 (2020), che trae ispirazione dall’antica iconografia della caritas romana [2], è all’origine del progetto espositivo intitolato IBIDEM Adesso e nell’ora della mostra, in programmazione fino al 30 settembre 2021 presso lo spazio pianobi diretto da Isabella Vitale (1977, Roma), curatrice della mostra. Dalla rassegna espositiva emerge l’intenzione di creare un percorso espositivo diversificato, al fine di individuare un deposito di immagini espressive di una coscienza artistica fortemente riflessiva verso l’ineluttabilità degli aspetti materiali delle cose e la processualità utilizzata per modificarli.

In questo senso, la scelta della curatrice di far originare la mostra dall’immagine della caritas romana, stimola una serie di riflessioni concatenate; l’iconografia, desunta dalla cultura pagana, si lega concettualmente al titolo“Adesso e nell’ora della mostra” che evoca le litanie religiose, aspetto spirituale a sua volta accentuato dai lavori site specific. Nel caso specifico, Marco Emmanuele ha creato tre lamine di vetro allestite sulla porta vetrata d’ingresso, come a voler significare un intervento tipico dei luoghi liturgici, laddove si addensa l’aspetto spirituale del mondo.

Da qui emerge l’inedita intuizione dell’artista, ovvero la sua capacità di dar vita a una forma visiva e luministica nata da una contaminazione di materia e generi, dove residui di oggetti e frammenti derivati dal nostro mondo inscenano un dialogo spirituale fatto di meraviglia e immaginazione.

Così l’artista, trovandosi in una posizione a tratti dicotomica, nel senso che si spinge oltre ogni tipo di classico medium artistico, assume forme per volerci indicare la sua capacità di non imporsi alcun limite sui materiali lavorati. In questa maniera le vetrate allestite sembrano rappresentare filtri luminosi che trasudano l’aspetto corporale del mondo: forate come sono, segnate, in alcuni casi dilaniate, sembrano dei supporti scrittori che vogliono ricordarci che in realtà l’uomo, ancor prima di comunicare con la scrittura, si è espresso con segni amorfi, elementi quest’ultimi direttamente legati al nostro inconscio.

La mostra risulta caratterizzata da queste particolari contaminazioni, tra la fisica delle cose e lo spirito dell’uomo, tutto ciò potrebbe essere sintomo del desiderio di Emmanuele di voler scorgere l’infinita ricchezza dell’essere e del mondo in cui viviamo. Non c’è da stupirsi se l’opera Iso#42 sembra ricordare la denominazione, come volutoci suggerire dall’artista, della granulosità e sensibilità della pellicola fotografica, ma anche il nome di una particella instabile che attende di saltare da una interazione all’altra, a simboleggiare, citando le parole del fisico Carlo Rovelli, “che ciò che esiste non è mai stabile; non è che un saltare da una interazione all’altra[3].

Un insieme, allo stesso tempo acuto e coinvolgente, volto a sottolineare l’attenzione dell’artista verso lo stato della realtà, che volendo parafrasare le parole di Rovelli, è un “pullulare continuo e irrequieto di cose, un venire alla luce e uno sparire continuo di effimere entità”. [4]  Da queste riflessioni emerge inequivocabilmente l’attenzione di Emmanuele verso la fisica e la materialità delle cose, poiché tutto il suo linguaggio artistico è basato proprio su una sorta di sabotaggio dei normali processi denotativi dell’arte che ha lo stato nascente [5]verso l’aspetto della materia, in questo caso l’uso del vetro, la ceramica e frammenti di detriti.

La mostra è nel suo complesso una sorta di pausa teofanica, in attesa della manifestazione di una divinità, sia essa pagana o cristiana, proprio per il suo porsi come un indecifrabile percorso introspettivo legato dalla contaminazione e destrutturazione di frammenti scartati di vetro e ceramica, elementi questi sempre tenuti a bada dall’intenzionalità dell’artista che ne domina forma e colore.

Questa sua capacità metodologica di valorizzare gli scarti in quanto residui di lavorazione, implica una coscienza intellettuale raffinata e sottilissima che permette a Emmanuele di creare delle tele caratterizzate da graffianti caos armonici. Ed ecco le piccole pietruzze vitree, polverizzate e mischiate a sabbia di mare e colla di coniglio su tela, disporsi sulle superfici secondo meccanismi formali e coloristici basati sull’esclusione e l’inclusione delle forme. Ed è per questo motivo che l’immagine compiuta riesce a dare perfettamente corpo e timbro al sentimento del riuso e all’idea di un’arte di futura memoria.

Diversamente dalle solite mostre che si visitano oggigiorno, dove lo spazio risulta sovraesposto, la mostra di Emmanuele ha il suo punto di forza nell’accostamento selettivo di opere tecnicamente dissimili tali da indurre importanti e profondi spunti di riflessione. In questo modo, come in un processo di traslazione, la fisicità dell’opera si compenetra nello spazio fisico: avviene ciò nel caso della scultura chiamata Nettascarpe (2019), in cui l’oggetto che veniva utilizzato per eliminare il fango dalla suola delle scarpe nel Settecento, si presenti come un reperto di archeologia urbana, ora riproposto con dei piccoli frammenti in vetro levigati disposti secondo un equilibrio compositivo precario. Questa scelta di sovrapporre dettagli per mescolare elementi figurativi decisamente informali, sembra voler indirizzarci a favore di una struttura scultorea di valenza allegorica legata ad una pluralità di significati, tali da rendere l’antico oggetto vivo e autonomo, indipendentemente dal suo uso primario.

Un’altra caratteristica, cifrante per la singolarità ideativa, delle opere in mostra, è la capacità di Marco Emmanuele di volgere l’attenzione sull’oggetto e sulla componente fisica, al punto tale che la diversità dei medium utilizzati diventano degli strumenti che allontanano dai limiti metalinguistici dell’arte. L’artista, soprattutto nelle opere eseguite con materiali vitrei, sviluppa una sorta di trapasso che alcune volte lo porta ad annientare il soggetto raffigurato, sino a farlo vaporizzare a favore di una riduzione dei volumi e della loro profondità prospettica. Secondo questo processo di sopito annientamento figurativo, Emmanuele accentua l’aspetto fisico e processuale dell’opera, fino a donarci l’intima corporeità delle materie prime utilizzate attraverso una suggestiva semplicità coloristica e tonale. Emmanuele gioca con gli scarti del mondo, seleziona con cura elementi residuati dalla bulimica vita contemporanea, per poi raccoglierli, modificarli, sino a riproporli a una nuova vita, generando così nello spettatore una sensazione di incredulità e stupore.

Ciò che avvalora questa teoria è la visione secondo cui è possibile considerare le opere esposte come delle piccole teofanie, ovvero come delle manifestazioni di divinità terrestri con un cuore materiale, nate da scarti rinvigoriti e rigenerati dalle mani di un artista, a metà strada tra il fisico e l’ecclettico, contaminatore di frammenti apparentemente non più utilizzabili. A questo punto, noi tutti come dobbiamo trattare queste piccole teofanie terrestri nate da materiali di scarto? Emmanuele non ha dubbi, alla pari del fisico Rovelli, il quale, raccontando la bellezza della scienza sembra descrivere lo stesso approccio che il nostro artista ha con la realtà, considerata come una “fucina incandescente delle idee […] dove nascono, delle intuizioni, dei tentativi. Delle strade intraprese e poi abbandonate, degli entusiasmi. Nello sforzo di immaginare quello che ancora non è stato immaginato[6].

Questo progetto espositivo non si caratterizzerebbe per una sì vibrante energia spirituale se non fosse stato allestito in un luogo altrettanto stimolante: si tratta infatti dello spazio pianobi, nella zona sud-est di Roma denominata il Quadraro, fondato da Isabella Vitale e inaugurato proprio con questa mostra. È interessante soffermarci sulla denominazione del luogo, che potrebbe coincidere con un aforisma di vita: chi di noi non vorrebbe possedere un pensatoio lontano dalla normale routine dove isolarsi per leggere e riflettere? Non a caso gli ambienti rappresentano due ineffabili anime: il white cube espositivo, che attualmente ospita la mostra di Marco Emmanuele e l’attigua area quale luogo di raccoglimento intimo, la cui luce radente illumina volumi e raccolte di documenti storici della vita accademica della fondatrice. Proprio da questa connection trasuda, con vemente energia, l’amore e l’interesse verso le idee che rendono pianobi un incubatore di creatività, pronto ad accogliere forme artistiche inedite.

È la stessa fondatrice del luogo a sottolineare questo dualismo, affermando come lo spazio sia caratterizzato “da una libertà basata su collaborazioni trasversali. Questo implica diverse fasi: lo studio e la progettualità espositiva ideata assieme all’artista che sfocia in un momento di confronto come un normale sviluppo di una ricerca che ha il suo inizio nell’esposizione. Inoltre, la programmazione dello spazio non ha alcuna calendarizzazione serrata perché ogni mostra nasce da un confronto introspettivo e progressivo con l’artista, giacché è proprio questo il valore aggiunto della strategia espositiva”.

Il filosofo Schopenhauer descrive gli eruditi come coloro che studiano per raggiungere l’intelligenza delle cose e i libri, gli studi e gli approfondimenti tematici, sono i gradini di una scala la cui ascesa permette l’accesso alla conoscenza. Il pensiero di Vitale si riflette in questa immagine metaforica secondo cui “il vero erudito i pioli della scala li porta con sé, rallegrandosi per il crescente peso del carico[8]. In un tempo in cui sembra oramai non esserci un momento per fermarsi e riflettere, in questo luogo, invece, ricco di suggestioni la ricerca artistica diventa un momento di meditazione.

Info:

www.pianobi.info

[1] Walter F. Otto, Teofania. Lo spirito della religione nella Greca antica, a cura di Giampiero Moretti, piccola biblioteca Adelphi, 2021, Milano, pp. 32-35

[2] L’iconografia della Caritas Romana deriva da un racconto dello storico romano Valerio Massimo (Roma, I sec. a. C. – I sec. d. C)

[3] Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, piccola biblioteca Adelphi, 2021, Milano, 2014, p. 40

[4] Carlo Rovelli, op. cit, p. 41

[5] Il termine stato nascente è stato teorizzato dal sociologo Francesco Alberoni (1929) e indica un gruppo di persone accomunate da ideali comuni che creano un movimento. Tuttavia, secondo il sociologo questo stato è legato anche alla fase dell’innamoramento, da intendersi come un movimento collettivo a due. Secondo questa accezione nelle opere di Marco Emmanuele lo stato nascente emerge come un amore verso la materialità che lo conduce ad abbattere ogni barriera mediale fino a farlo sperimentare senza alcun limite.

[6] Carlo Rovelli, op. cit, p.49

[8] Arthur Schopenhauer, L’arte di insultare, a cura e con un saggio di Franco Volpi, Adelphi Edizioni, Milano, 2020, p.61

Lo spazio pianobi fondato e diretto da Isabella Vitale, Roma, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Marco Emmanuele, Ibidem, 2021, resina e vetro, 52 x 30 cm, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Installation view della mostra Marco Emmanuele. IBIDEM, Adesso e nell’ora della mostra a cura di Isabella Vitale, pianobi, Roma, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Particolare dell’opera Marco Emmanuele, Ibidem, 2021, resina e vetro, 52 x 30 cm, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Installation view della mostra Marco Emmanuele. IBIDEM, Adesso e nell’ora della mostra a cura di Isabella Vitale, pianobi, Roma, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Marco Emmanuele, Nettascarpe, 2019, ferro smaltato e vetro, 33 x 25 x 5,5 cm, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Installation view della mostra Marco Emmanuele. IBIDEM, Adesso e nell’ora della mostraa cura di Isabella Vitale, pianobi, Roma, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Marco Emmanuele, Iso #42, 2020, polvere di vetro, sabbia di mare e colla di coniglio su tela, 150 x 120 cm, Ph. Credit Marco Emmanuele, Courtesy pianobi, Roma

Lo spazio studio di pianobi, Ph. Credit Eleonora Cerri Pecorella, Courtesy pianobi, Roma


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