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Non parliamo di “Selfie”, parliamo di “Danci...

Non parliamo di “Selfie”, parliamo di “Dancing with Myself”

In periodi come questi, dove la parola “Selfie” è andata in pasto a tutti, la mostra “Dancing with Myself” riporta con i piedi per terra una generazione che spesso non conosce le origini del concetto di Autorappresentazione.

Tra i muri a vista a Punta della Dogana viene raccontata una lunga storia, curata da Martin Bethenod e Florian Ebner, con 100 opere della Pinault Collection (molte delle quali inedite per Venezia) messe in relazione con una selezione di opere provenienti dal Museum Folkwang di Essen (Germania), per un totale di 145 opere.

La mostra esplora storie di personaggi vulnerabili, sensuali ed innovativi, dove il concetto di “Myself” non è visto principalmente come forma di narcisismo ma come forma di relazione del proprio corpo verso l’esterno, in quanto corpo politico.
L’esposizione si espande però verso quattro tematiche, Melanconia, Giochi d’identità, Autobiografie Politiche e Materia Prima e attraversa nomi di rilievo: da Claude Cahun a LaToya Ruby Frazier, da Gilbert & George a Cindy Sherman, da Alighiero Boetti a Maurizio Cattelan, da Rudolf Stingel a Lili Reynaud-Dewar, da Adel Abdessemed a Nan Goldin e moltissimi altri.

Dancing with Myself” scruta le varie forme di “Rappresentazione di sé” dagli anni ’70 ad oggi e del ruolo di “personaggio” che ha l’artista all’interno della sua stessa immagine; l’artista si pone come modello per poter valicare e andare oltre ogni censura, mostrando su  un palcoscenico immaginario il proprio Alter-ego.
Questa è una collettiva dove l’eclettismo emerge e dove conversano tra loro pitture, fotografie, installazioni e sculture.

Ma la tecnica che ha cambiato radicalmente il modo di rappresentarsi è sicuramente la fotografia: l’autoscatto e il mettersi davanti all’obiettivo, e non dietro, concede all’artista di infiltrarsi nei media, manomettendo i codici comunicativi dall’interno; la personalità produce un’alternanza identitaria fatta di tante realtà. Il mezzo fotografico per molti artisti è lo spazio virtuale in cui può finalmente scatenarsi l’ibridazione di generi e lo smascheramento degli stereotipi; la fotografia, costruita tra verità e manipolazione, fra originale e copia, diviene così il luogo d’azione preferito nel quale esaltare gli opposti e metterli in relazione.

È difficile raccontare tutte le emozioni e le storie che si celano dietro ogni opera e dietro ogni “immagine di sé”, infatti è proprio il racconto nella sua totalità che esprime l’essenza del progetto.
Dopo aver visitato questo percorso, rimangono forti tracce, dei veri e propri Flashback nella mente:

– Il dialogo tra la vita e la morte nell’ ”Autoritratto” del 1993-94 di Alighiero Boetti, che nell’opera raffredda il proprio corpo caldo con dell’acqua (ancora più forte ed emozionante sapere che proprio in quel periodo  l’artista scoprì di avere un tumore al cervello e che poi morì l’anno dopo);

– Il dialogo incerto di Urs Lüthi con se stesso, dove oscilla tutto tra illusione e realtà;

– Il dialogo tra se stessa e l’annullamento della propria identità sessuale di Claude Cahun nell’opera fotografica “Self portrait” del 1929;

– Il dialogo del corpo con la sessualità nei lavori di Gilbert & George, dove viene anche decifrata la condizione umana non priva di umorismo;

– Il dialogo di Cindy Sherman con il proprio corpo che diventa “simulacro”;

– Il dialogo tra il silenzio e la propria coscienza del sè di Urs Fischer;

– il dialogo tra il proprio corpo e la malattia nell’opera di Felix Gonzalez-Torres, “Untitled – (Blood) del 1992, dove una grande tenda che rappresenta il suo sangue (con globuli rossi e bianchi), cade giù in entrata della mostra; l’artista infatti era malato di AIDS e ne morì poi subito dopo nel 1996. Questa grande tenda è una sorta di cerimoniale, una condivisione di tragedia e tenerezza allo stesso tempo.

– Il dialogo di se stesso con il proprio spettro, nell’opera “We” del 2010 di Maurizio Cattelan, dove paura e familiarità sono protagoniste, ed è proprio davanti a quest’opera che mi soffermo.

L’artista ritrae se stesso disteso su un letto, in materiale sintetico e in dimensioni ridotte rispetto alla naturale statura umana; si rappresenta in una duplice versione: un se stesso con le braccia sulle gambe e l’altro con una mano sul lenzuolo e una sul petto.

Nonostante la postura ricordi quella dei cadaveri, i corpi sembrano muoversi o comunque essere dinamici, questo è quello che si pensa quando si notano gli occhi dei due “Cattelan” che scrutano qualcosa o qualcuno. Questa scultura simboleggia chiaramente la voglia e il desiderio di controllo anche dopo la morte. Siamo di fronte ad un Cattelan sdoppiato, dove la stessa persona vive due scelte e di conseguenza due vite differenti.

Come racconta Angela Vettese in una traccia del catalogo della mostra, Cattelan si interroga in effetti da sempre sulla “possibilità di essere persone diverse e dunque sull’identità e sembra che abbia voluto parlare delle infinite possibilità di esistere che stanno di fronte a noi e delle quali si deve scegliere un percorso solo.”

Apprezzo ed amo profondamente in tutta la sua totalità questa mostra, dove i curatori hanno voluto evidenziare e scostare lo sguardo dal concetto standard di “selfie”, accusando in parte “l’artista” di oggi che non conosce le origini dell’ autorappresentazione e che osa quotidianamente esprimersi attraverso “media” e tecnologia avanzata.
Il “vedersi” adesso è diventato “vedersi attraverso gli occhi degli altri” e non più attraverso se stessi.
Se prima quello che interessava all’artista che si ritraeva era un’esigenza quasi fisica verso il proprio corpo e quindi una terapia, adesso ritrarsi è diventata un’esigenza puramente narcisistica e di-mostrativa con una ricerca costante verso le conferme altrui.

Tutto è cambiato e ce ne rendiamo conto soprattutto quando osserviamo artisti che già negli anni ‘30 hanno messo a rischio la propria vita e la propria libertà, piuttosto che reprimersi (come Claude Cahun), ed è strano pensare che oggi se non ti esponi rimani un passo indietro.
Non parliamo di “Selfie” parliamo di “Dancing with Myself”, non parliamo di chi vuole continue approvazioni, parliamo di chi dichiara costantemente il proprio “IO” senza dover per forza passare prima dal giudizio degli altri.

26/09/2018
Benedetta Spagnuolo

Info:

“Dancing with Myself”
8 Aprile – 16 Dicembre 2018
Punta della Dogana, Venezia
www.palazzograssi.it

Maurizio Cattelan- “We” 2010 – Pinault Collection Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dancing with myself, Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dancing with myself, Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dancing with myself, Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dancing with myself, Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina

Dancing with myself, Installation view at Punta della Dogana, 2018 © Palazzo Grassi, photography by Matteo De Fina


  1. francesco

    2 Ottobre

    precisa, lucida analisi di un evento davvero speciale e di un argomento quantomai attuale.Bravissima!

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