to Disconfirm

Smentire, corrodere, negare, riformulare, frammentare e ridefinire le narrazioni sul passato che hanno contribuito a formare la Storia ufficialmente riconosciuta, ripensare al concetto d’identità smantellandone l’artificiale connotazione univoca per aprirla all’incontrollabile flusso della pluralità: questo il filo conduttore della collettiva to Disconfirm, visitabile fino al 13 giugno alla Gallleriapiù di Bologna.

Attraverso le opere di César Escudero Andaluz, Matteo Guidi, Giuliana Racco, Amanda Gutiérrez e Massimo Ricciardo la mostra vuole essere un’occasione di convivenza e confronto tra pratiche artistiche diverse tra loro, affini nell’intento di rimescolare alcune sollecitazioni visive e intellettuali della nostra contemporaneità esplorandone zone d’ombra e buchi neri. La ricerca artistica viene quindi valorizzata nella sua indispensabile inutilità come libero strumento di analisi e critica delle granitiche certezze apparenti su cui si basa la coabitazione globale, rivelandone la natura di arbitrario dispositivo di controllo. Parafrasando l’ostinato progetto del Bartlebooth di Perec, l’inestricabile incoerenza del mondo può essere irretita in infinite e irriducibili narrazioni che nascono da necessità provvisorie e conducono al nulla finale. Forse solo la duttilità dell’arte può riflettere le costitutive incongruenze e frammentarietà degli assunti identitari comunemente accettati attraverso un racconto sempre disponibile a smentire se stesso e i propri presupposti.

César Escudero Andaluz dal 2011 è ricercatore presso l’Università d’Arte di Linz nel laboratorio di Interface Culture dove studia il rapporto tra utenti e interfacce: proprio dal confronto tra supporti analogici e digitali che si misurano con le abitudini percettive della contemporaneità nascono le serie Tapebook e File_món. Nella prima l’artista servendosi di un programma audio trasforma testi estrapolati da pagine Facebook dedicate a pensatori e filosofi (come Lacan, Barthes, McLuhan o Foucault) in tracce audio riversate su audiocassette, ciascuna dotata di copertina che riproduce la grafica del social network. In questa sorta di archivio analogico d’informazioni digitali il materiale virtuale viene concettualmente appiattito in un’unica dimensione orizzontale, mentre si espande in senso tridimensionale l’ingombro dei supporti destinati a conservarlo e riprodurlo, stravolgendone l’essenza. File_món è una raccolta di frame in cui lo schermo del computer è interamente occupato da un’immagine fotografica in bianco e nero scelta tra le più popolari del passato che rappresentano momenti salienti della storia e della società; l’originaria valenza documentaria viene distorta e reinterpretata attraverso la sovrapposizione di icone digitali utilizzate come elementi grafici che compongono immagini sostitutive di alcuni elementi dello scatto originale. Al corto circuito concettuale si aggiunge quindi un’intrigante ipotesi di reversibilità delle più comuni categorie artistiche che trasforma il codice asettico dei segni digitali nell’inaspettato ritorno della figurazione.

La ricerca di Giuliana Racco e Matteo Guidi si sviluppa invece nell’intersezione tra arte e antropologia culturale approfondendo le modalità con cui individui provenienti da contesti di costrizione (come carceri di alta sicurezza, fabbriche e, più recentemente, campi profughi) gestiscono le proprie azioni quotidiane attivando ingegnosi metodi di resistenza alle difficoltà ambientali che ne limitano la libertà. I lavori in mostra riflettono sui concetti di appartenenza, appropriazione e persistenza della memoria come unità di misura di una distanza che trascende i confini geografici per abitare l’altrettanto intricata orografia delle nostre barriere culturali. Così ad esempio il progetto In Between Camps documenta un cammino di tre giorni compiuto dagli artisti lungo le rovine di un acquedotto romano che anticamente portava a Gerusalemme l’acqua che scaturiva dalle piscine di Solimano vicino a Betlemme. Costruito da colonizzatori antichi, oggi l’acquedotto collega due campi profughi attraversando territori spesso interdetti agli abitanti originari e viene utilizzato dai locali come cava di marmo nell’emblematica erosione di un passato a cui forse non sentono di appartenere.

La pratica artistica di Massimo Ricciardo è incentrata sulla creazione di processi atti a realizzare una sorta di “memoria vivente” che prendendo spunto dalle relazioni sociali della sua famiglia si arricchisce delle impressioni di viaggio acquisite nel corso delle sue avventurose peregrinazioni per il mondo. In particolare le opere esposte si riferiscono al periodo trascorso a Kashgar, città cinese della provincia autonoma dello Xinjiang, storico crocevia di genti lungo la via della Seta. La serie di pitture a olio intitolate Expropriation presenta gli squarci del centro storico ottomano abbattuto in seguito a un radicale piano regolatore come palese forma di sottomissione del popolo degli Uiguri, minoranza locale di etnia turcomanna e fede musulmana in opposizione al governo centrale. La materia grondante depositata sulla tela sembra alludere al fango con cui erano costruite le abitazioni distrutte, le cui ferite sono evidenziate da spruzzi di colore sgargiante. La cancellazione della memoria si trasforma quindi in un potente urlo cromatico che ne amplifica l’eco in un estremo tentativo di negare l’arbitraria negazione. L’installazione Permanent Vacation, composta da provvisori giacigli da migrante rivestiti di tessuti tradizionali connotanti l’etnia di appartenenza dei loro possessori, rielabora la precarietà e l’impoverimento dell’identità in transito confrontandola con il tessuto del potere, un’immagine dell’accappatoio che Mao indossava in alcune foto ufficiali.

La video trilogia Time topographies della messicana Amanda Gutiérrez conclude il percorso espositivo con la polifonica narrazione di storie intrecciate di clandestinità e migrazione accompagnate da immagini fotografiche dei luoghi d’approdo degli immigrati-narratori. Le voci fuori campo raccontano il viaggio verso la nuova patria affidando le proprie parole a una persona di differente età, etnia e genere: lo straniamento che deriva da questa imperfetta aderenza al reale raffredda l’impatto emotivo in un’implicita critica al tono con cui solitamente i media si occupano di queste problematiche. Il progetto riflette sulle conseguenze sociali, politiche e personali degli spostamenti migratori e ipotizza una reintegrazione della memoria in relazione allo spazio utilizzando il paesaggio come  punto di partenza nella ricostruzione dell’identità spaesata.

César Escudero Andaluz, File_mòn, 2012

César Escudero Andaluz, Tapebook, 2015, materiali vari, dimensioni variabili

Matteo Guidi, Giuliana Racco, In Between Camps, 2013, stampa inkjet a pigmenti su carta Infinity Rag Photographique

Massimo Ricciardo, Expropriation, 2015, pittura a olio su tela, bomboletta spray

Amanda Gutierréz, Time Topography Liverpool, 2012, video still


Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.