READING

A tu per tu con la curatrice Maria Chiara Valacchi...

A tu per tu con la curatrice Maria Chiara Valacchi: tra social, parole e il bruco caramellato

Lei è alta e bionda, originaria di Follonica ma naturalizzata milanese da molti anni, sfoggia un profilo Instagram con video e reel con un altissimo numero di visualizzazioni. La sua maniera di comunicare l’arte diverte gli utenti del web, e non solo. Giornalista per Elledecor e curatrice indipendente, è una delle ideatrici e fondatrici di Cabinet, spazio non-profit fondato a Milano nel 2010, nato con l’obiettivo di promuovere e valorizzare la pittura contemporanea. Intervistata in un pomeriggio assolato di giugno, dalla Costa Orientale Sicula, sono emerse molte curiosità sulla sua maniera di essere una curatrice onnivora (mangia di tutto), oltre che grande appassionata di musica e cinema.

Nilla Zaira D’Urso: Parliamo del tuo rapporto, da curatrice, con Instagram: per te quanto è importante il tuo pubblico?
Maria Chiara Valacchi: Uso i social in maniera spontanea, sono un’autodidatta e per me è tutto molto diretto, senza filtri. Per alcuni mesi ho tenuto una rubrica ironica sul mondo dell’arte, tutte le volte che trovavo esilaranti alcune cose del sistema ­– che secondo me tutti pensano ma pochi hanno il coraggio di ammettere – le racchiudevo in brevi clip, di trenta-quaranta secondi, dove esprimevo in una formula semplice il mio pensiero. Si chiamavano “il giovedì della Valacchi”: un appuntamento molto seguito e apprezzato, quasi un fenomeno. Mi è stato chiesto più volte di riproporlo ma non me la sono sentita, ho capito che quello che dovevo dire con naturalezza l’avevo già detto, andare oltre sarebbe diventato noioso per gli altri e per me. Ho così iniziato, sempre per sperimentare le nuove possibilità dei social, a realizzare reel su mostre e grandi eventi, associando a carrellate di immagini la musica che più mi piace e che trovo attinente al contenuto. L’effetto è stato immediato e molte persone mi hanno chiesto come svilupparli e, così, ho iniziato a seguire gli opening utilizzando questo mezzo per le testate giornalistiche con le quali collaboro. Mi sono trovata, mio malgrado, a cercare di comprendere il perché di tanto seguito, analizzando le modalità di comunicazione da me utilizzate, che più di una volta sono state oggetto di attenzione. Non so come spiegarle chiaramente, perché non strutturo la cosa in maniera preordinata, né mi rivolgo a un pubblico specifico o a società che le gestiscono. Nonostante questo, devo tantissimo ai social perché mi hanno fornito un palco dove poter condividere i miei processi lavorativi e questo mi ha portato negli anni a ricevere tante proposte di lavoro, anche importanti. Credo che tutto nasca dalla mia esigenza di comunicare l’arte in maniera semplice ed empatica, una modalità che applico anche nella scrittura, nel rapporto con gli artisti, nello strutturare mostre fondate su pochi concetti, molto chiari che individuando subito il fulcro della ricerca che voglio approfondire. Ciò che invece non lascio mai al caso è la diffusione delle mostre che curo e degli articoli che scrivo. Qui cerco di sfruttare i canali social in maniera intelligente e programmata.

Hai mai fatto auto-critica sul tuo modo di lavorare o un tuo collega ti ha mai fatto notare qualcosa che non va nella tua maniera di proporre l’arte?
Purtroppo, no. Non ho ricevuto molti appunti negativi. E dico “purtroppo” in quanto siamo ormai permeati in un tempo dove sembra che la critica sia stata sostituita dal politically correct.  Siamo intrisi in una società dove è accettato solo il pensiero conforme ed edificante. Mi sovviene così il consiglio della madre di “Andreotti”: «Se non puoi parlare bene di una persona, non parlarne affatto». Siamo nel pieno di questo concetto “andreottiano” in cui passa solo ciò che è accettato e “corrispondente”. Come tutti, cerco di fare le cose nel meglio delle mie possibilità, ma talvolta anche io commetto degli errori, tutto sommato però mi reputo una buona curatrice, anche se per adesso la mia carriera, seppur soddisfacente, non è stata segnata da grossi incarichi o riconoscimenti. Sicuramente il fatto di aver sposato la mia professione in maniera trasversale, occupandomi di insegnamento, scrittura e critica ha fatto sì che non intraprendessi percorsi istituzionali con maggiore dedizione e metodo, cosa che, invece, si richiede.

Rispetto a quanto mi di dici, hai pensato che fare questo lavoro, essendo donna, possa essere un “limite” qui in Italia? La mia è ovviamente un’amara provocazione.
Sicuramente viviamo in una società dove la parità dei sessi non è stata raggiunta e dove le donne devono ancora faticare in molti campi per essere considerate. Nonostante questo, anche se ho subito molti episodi di “machismo”, non sono mai stata veramente limitata nel mio campo a causa del mio genere sessuale. Essere donna mi ha anche agevolato, credo che se sfruttato in maniera intelligente ed equilibrata, talvolta, faccia parte del normale gioco delle parti. Non intraprenderei però una vera e propria lotta legata al riconoscimento nell’arte delle donne. Le cose stanno anche cambiando, fortunatamente. Infatti, sono ormai molte le donne con incarichi importanti e sempre di più le artiste acclamate. Credo che oggi sia più urgente rivolgere l’attenzione e le energie per battaglie come il raggiungimento della parità salariale, la tutela della maternità e la sua non discriminazione nell’ambito lavorativo, il diritto all’aborto e il veder riconosciute libertà essenziali che permetterebbero a noi donne di vivere in maniera più equa.

Sempre rispetto al tuo lavoro, come sei arrivata a essere una curatrice?
È stata una scelta-non scelta. Mi sono formata come restauratrice di arte contemporanea e, nel contempo, ho iniziato a scrivere di arte su blog e riviste online sin da ragazzina. Visitavo mostre, i musei ed ero presente a ogni genere di opening, conoscevo così tante persone, artisti. Dedicavo molto tempo a visitare i loro studi, non solo allo scopo di realizzare una mostra, ma per conoscere a fondo il sistema artistico che mi contornava. Da cosa poi nasce cosa e ho avuto la fortuna di ricevere incarichi da giovani galleristi o artisti che mi hanno permesso di muovere i primi passi. Rispondendo a un annuncio su LinkedIn ho lavorato per due anni, come giornalista praticante, nella redazione di Arte di Cairo Editore, ed è stata un’esperienza molto formativa. Poi Antonio Colombo mi ha proposto, successivamente, di diventare la direttrice artistica della sua galleria, dove sono stata per più di un anno. Infine, ho incontrato il mio attuale socio, Antonio Di Mino, con il quale ho fondato Cabinet: spazio non-profit volto all’attuazione di dialoghi tra pittura e installazione e, nel 2011, Studiolo, vera e propria galleria interessata all’arte emergente. Molta gavetta in musei, spazi pubblici e privati, sono cresciuta tra conquiste e fallimenti, grazie ai quali sono arrivata fin qui e sono grata per quanto ho appreso e ottenuto, e orgogliosa di essermi costruita da sola.

A questo punto, dimmi quali sono le fonti di nutrimento dalle quali viene fuori la tua idea di curatela e di arte.
Sono una persona molto curiosa e onnivora, leggo e vedo tutto e, dato che il tempo a mia disposizione è poco, cerco di leggere classici, veder film di autore e ascoltare buona musica anche se non disdegno il trash, perché nella vita serve leggerezza e perché senza il basso non si riesce a capire cosa può essere l’alto. Amo leggere i saggi e i documentari sui grandi personaggi della storia. Cerco di essere metodica e se mi appassiono a un autore cerco di approfondirlo, come sto facendo in questo periodo con lo scrittore Sergej Dovlatov, o con il cinema di Jean Luc Godard. Essere interessati al tutto serve ad ampliare i confini delle percezioni, a stimolare in maniera viva l’intelletto, capendo la società che ci circonda nelle sue dinamiche più distanti o in quelle più affini. Per esempio, Dostoevskij è stato per me una rivelazione: un grande maestro di vita, grazie a lui ho scoperto cose della società coeva che non avrei mai percepito con tanta lucidità, nonostante mi stia ora riferendo a un autore dell’Ottocento. Cerco anche di ascoltare il più possibile e limitarmi a parlare quando lo reputo sia necessario, preferendo talvolta il silenzio.

Ricollegandomi al vocabolo “onnivora” ti faccio una domanda rispetto a ciò che mangi: sei onnivora? Hai mai pensato che la tua visione dell’arte sia filtrata anche da ciò che mangi?
Sicuramente, cerco di non avere mai una visione pregiudiziale, questo corrisponde anche al mio approccio con il cibo, assaggio sempre tutto. Ho fatto viaggi in luoghi remoti dell’Asia, dove, ad esempio, ho mangiato anche un bruco caramellato. Ho provato una certa repulsione ma ho assecondato la mia curiosità. Questa visione delle cose – senza nulla di aprioristico – la collego anche al mio modo di intendere l’arte, che mi appassiona in ogni sua variante. Cerco di registrare la contemporaneità senza giudizio servendomi anche dei social, che permettono di aprire una miriade di finestre sul mondo. Sicuramente, dall’altra parte, oggi stiamo assistendo a una mancanza di profondità anche a causa di questa comunicazione veloce e mai accurata, alla gestione di un tempo disumanizzato volto a soddisfare le dinamiche di una società consumistica. Questo impedisce la sedimentazione delle nostre riflessioni, la costruzione di aspetti concreti che possono aiutarci ad avere un pensiero critico più formato.

A proposito del tuo lavoro, a quale progetto stai lavorando adesso?
Per adesso sto seguendo due mostre: una a Roma, dedicata alla pittura di Rudy Cremonini, presso Francesca Antonini dal titolo “Capriccio” e la personale di Jimmy Milani, “esco da qui”, a Studiolo. Il prossimo appuntamento sarà invece a luglio, dedicato all’opera di Federico Cantale, a Mandranova, un bellissimo resort sito a Palma di Montechiaro, che dal 2014 organizza un ricco programma di residenze per artisti. Infine, strutturando la pagina dell’arte per Elledecor, stiamo pensando a un piano di contenuti da divulgare durante tutta l’estate.

Giocando con le iniziali dei tuoi nomi, ho pensato di trovare tre vocaboli che potessero raccontare la tua idea di arte contemporanea. Partendo con la “M” di Maria penso a “menzogna”, “memoria” e “magia”. Cosa mi dici?
Se ripristiniamo il vero significato delle parole – perché ultimamente il senso di alcune è stato stravolto, violato – penso che il termine “magia” sia il più attinente all’arte, vicino alla capacità dell’artista di tradurre quasi, come uno sciamano, l’impulso creativo: una volontà quasi divina che trasforma la materia in qualcosa ricco di senso e di bellezza. Per quanto riguarda “menzogna” non saprei, il sistema dell’arte delle volte usa la menzogna per imbonire, per macinare soldi e ridurre a un meccanismo prevalentemente economico ciò che nasce per arricchire anima e intelletto, ma non voglio avvicinare concetti così sgradevoli a un mondo per cui nutro sempre fiducia e dove ancora il concetto di verità esiste. La parola “memoria” invece mi piace per il peso che porta e per il suo senso morale. La memoria dovrebbe essere la base di ogni uomo e di ogni società, si tratta infatti di un patrimonio imprescindibile, senza la quale non siamo esistiti e non possiamo essere.

Andando avanti: “C” come Chiara, ma anche come “catarsi”, “credenze” e “contenuti”. Quali di questi termini ti corrispondono?
Mi auguro che nel sistema dell’arte sia sempre presente il concetto di “contenuti” perchè la vera responsabilità che abbiamo noi curatori, critici ma anche artisti e galleristi è di creare e supportare la proliferazione di contenuti che possano arricchire intellettualmente le generazioni coeve e future. Rispetto al verbo “credere”, invece, dico che non sono una persona credente, ma penso che “credere” sia un grande privilegio, talvolta è l’unica spinta che salva l’umano. Più che credere nell’arte e nel sistema, diciamo che ne ho fiducia e la mia fiducia non è stata ancora tradita. La “catarsi” la attribuisco invece più a quel momento di liberazione e di rivelazione che provo quando mi trovo davanti a un’opera che mi colpisce. L’ultima è stata davanti a un’opera estatica di El greco al Kunstmuseum di Basilea. Sono attimi di felicità, momenti di immenso privilegio.

Infine, “V” come Valacchi, ma anche come “valori”, “vuoti”, “visioni”. Quale parola sceglieresti?
Sceglierei “valori”. I valori sono necessari – se si riesce a dare il giusto “peso” alle cose e ai gesti – non facendo subentrare la sciatteria e l’incuria. Tutto ciò che c’è di bello nelle cose si figura anche nelle visioni, nei vuoti creativi, non nelle solitudini. In arte, con la cura e il reale riconoscimento del suo valore, tutto fiorisce.

Per concludere, c’è una parola che vuoi consegnare ai lettori?
La parola che scelgo e che lego sia al mio lavoro sia alla società è “pudore”, non nel suo senso bigotto, ma come valore di tutela e rispetto per ciò che si pensa e dice. Avere “riguardo” per le persone e le cose: essere “onesti”, “decenti”, provare sana “vergogna”. Viviamo in una società molto screanzata, dove tutto è un po’ corrotto e spudorato, nel senso più insidioso del termine. Manca la delicatezza leggera del pudore. Io invito le persone ad agire discretamente sia nell’esprimersi sia nel recepire. Bisogna aver cura della propria mente, del proprio animo, rispettarlo come un tempio. Come diceva Dante: «Lo pudore è uno ritraimento d’animo da laide cose, con paura di cadere in quelle».

Nilla Zaira D’Urso

Info:

Maria Chiara Valacchi
CABINET STUDIOLO
http://www.studioloproject.com/

Maria Chiara Valacchi, ritratto. Ph. Fabio Rizzo

Brian Calvin, Wendy White, installation view, 2017, Cabinet, Milano. Ph. Filippo Armellin, courtesy l’artista e Cabinet, Milano

Brian Calvin, Wendy White, installation view, 2017, Cabinet, Milano. Ph. Filippo Armellin, courtesy l’artista e Cabinet, Milano

Cecilia Granara, installation view, 2020, Studiolo, Milano. Ph. Filippo Armellin, courtesy l’artista e Cabinet, Milano

Cecilia Granara, installation view, 2020, Studiolo, Milano. Ph. Filippo Armellin, courtesy l’artista e Cabinet, Milano

Matyáš Chochola, Christian Jankowski, installation view, 2018, Cabinet, Milano. Ph. Filippo Armellin, courtesy gli artisti e Cabinet, Milano

Pierpaolo Calzolari, Pitture, installation view, 2021, Cabinet, Milano. Ph. Filippo Armellin, courtesy l’artista e Cabinet, Milano

Pierpaolo Calzolari, Pitture, installation view, 2021, Cabinet, Milano. Ph. Filippo Armellin, courtesy l’artista e Cabinet, Milano

Sylvie Fleury, Alexander Wagner, Warp & Weft, installation view, 2013, Cabinet, Milano. Courtesy gli artisti e Cabinet, Milano

Jimmy Milani, esco da qui, installation view, 2022, Studiolo, Milano. Ph. Michela Pedranti, courtesy l’artista e Cabinet, Milano


RELATED POST

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.