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Andrej Dúbravský: una selvatica e fluviale violenz...

Andrej Dúbravský: una selvatica e fluviale violenza affettiva

Alcune volte catturare la fantasia significa semplicemente rifugiarsi in un piccolo pensiero portatile, che a parer di alcuni è un gatto, animale simile a una tigre tascabile.[1] Anche se impervie teorie ragionano sui temi prediletti degli artisti d’oggi, orientarsi verso un tale soggetto potrebbe generare perplessità, vuoi per la carica di inaudita semplicità, vuoi per contrastare con vigore la diffusa e sfibrata inventiva dell’arte contemporanea.

Andrej Dúbravský, Alica, installation view, ph. credit Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma

E quando la pittura è concepita come un atto di diserzione verso l’ideale, è naturale che ci giunga con un peculiare valore artistico, rafforzato dal suo carattere spurio e selvatico. Questo è quanto avviene nella produzione di Andrej Dúbravský (1987, Nové Zámky, Slovacchia), la cui pratica è in continuo sussulto, mossa com’è da una penetrante e curiosa vivisezione del mondo naturale, con il quale l’artista vive in incessante simbiosi. Vero è che l’autore non tende a chiudersi nel verde bocciolo di questo motivo, rimanendo sempre schiuso a freschi spunti ideativi, come nella produzione pittorica di Alica esposta nella mostra personale in programmazione fino al 28 luglio 2023, presso la Richter Fine Art di Roma. Il progetto svela la lucida pazzia di Dúbravský, espressa in una furia affettiva verso la sua omonima gatta scomparsa, con la quale si ritrae in pose felici, rivelando quanto la pittura sia prima di tutto un istante per sé, un’alleanza tra la memoria e la tenera delizia che dona.

Andrej Dúbravský, Alica, installation view, ph. credit Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma

Sebbene il soggetto trattato potrebbe sembrare ripetitivo e superficiale, in realtà pone una sfida: ovverosia affrontare il classico genere dell’autoritratto secondo una ricca immaginazione, che per Dúbravský equivale a immergere la propria testa negli instabili e molli vapori di una fredda atmosfera che avanza dalle profondità del vespro lunare. Nondimeno, visitando la mostra si rimane nel convincimento che egli abbia lavorato con un pensiero fisso e tagliente, intriso di puro narcisismo e compiacenza verso sé stesso, giacché «l’arte non è niente, né questo né quello. L’arte sono io, perché io dico: sono questo – e questo è l’arte»[2]. Ebbene, non è affatto così, poiché l’artista si ritrae senza alcuna forzata affettazione e inelegante pretenziosità, ma nella schietta consapevolezza di essere manipolatore della propria memoria, lasciando spazio a una creatività che appunta e racchiude il tempo dello struggimento e della fatalità. E trattare tale istante lo conduce a proiettare sé medesimo in maniera apparentemente grossolana, imprecisa e aleatoria, con un’estrema sensibilità tonale, figlia di una manualità del bello davvero difficile da rendere. Ed ecco che Dúbravský si lascia avvolgere da una luce lunare, alcune volte scandita da colorazioni fredde, acide e brune, secondo una luminosità costruita sulla forza dell’alternanza e dello scomponibile; che beninteso tira fuori i soli dati essenziali, quali le mani e la definizione sommaria dei corpi, sempre pregni di un sottile erotismo mai inibito.

Andrej Dúbravský, Night blindness, acrilico su tela, 110 x 100 cm, 2023, ph. Credit Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma

Così, affiancando e montando in modo espressivo un blu, un rosso e un verde, assieme all’uso irruento del carboncino, ci fa intendere che quel che conta nella pittura è la sua qualità selvatica. Per cui nulla è mai perfettamente definito, bensì mantenuto in vita da intervalli che fanno palpitare le differenze, e siffatto irriverente atteggiamento è una gaia deriva del mondo naturale blandamente reale e fortemente fluviale. Ma se solo nei sogni ogni cosa è fluttuante, invero con Dúbravský v’è la capacità di rendere il tessuto umano instabile come l’acqua, così anche la tecnica pittorica presuppone l’uso di colori fortemente diluiti e disposti in aloni slavati. Dimodoché per l’artista nessun corpo d’uomo ha il colore della carne, ma possiede le gradazioni dell’acre ruggine o il chiarore di un acquitrino, manifestando un’inaspettata sovrana umidità e un senso di antigravità.

Andrej Dúbravský, Bathroom mirror at 3am, acrilico su tela, 100 x 120 cm, 2023, ph. Credit Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma

Ciononostante, nelle opere in mostra avviene qualcosa di inconsueto: Dúbravský lavora talmente tanto sul proprio modello sino a possederlo e manipolarlo, sottolineando infine la sua sacralità, atteggiamento quest’ultimo consolidato in tutta la sua produzione, per cui ogni creatura appartenente all’ecosistema naturale ha valevole dignità e forte capacità di tradursi in opera d’arte.Egli giunge così a un’esplosione della propria natura senza alcuna recita di sé stesso, e anche laddove l’immagine sembra congelata, non ci suggerisce mai una sua verace trascrizione, conscio com’è che «copiando la natura. Di certo non riusciamo in alcun modo a catturarla – meglio offrire il sentimento – di per sé stesso»[3]. E se nella liberazione dei ritratti amati e sentitamente lavorati ci è permesso di cogliere l’immagine nella sua datità immediata, diversamente nelle tele dal delizioso carattere di abbozzo, sporadicamente raccolte sul pavimento della galleria, si sfiora verosimilmente una questione scaturita dal dialogo intellettuale con il Gallerista Tommaso Richter, interessenza basata sulla libertà della vena creativa e affrancata alla domanda cosa sia l’atto di creazione? [4]. La risposta che ne scaturisce si consolida nell’inventare e creare concetti, piuttosto che sostare nella loro tacita e vuota riflessione, e in questa scelta non v’è il proposito di comunicare il carattere oggettuale dell’opera, bensì di evidenziarne la qualità visiva ed euforica in quanto meccanismo necessario e funzionale al corretto andamento di un progetto dal carattere seducente.

Andrej Dúbravský, Alica, installation view, ph. credit Giorgio Benni, courtesy Richter Fine Art, Roma

A suo modo Dúbravský nell’aver eletto questo incessante e introspettivo colloquio con qualcosa che non esiste più, appare emotivamente lacerante quale la resa di un ostinato racconto di un legame affettivo in cui l’artista si ritrae perituro, carnale e in cui trova un saldo rifugio, in un momento storico in cui la sua terra d’origine è tragicamente segnata, seppur in modo indiretto, dalle conseguenze belliche del conflitto russo-ucraino. Dunque, per non cedere nell’ovvietà degli autoritratti l’artista, con coraggio, analizza costantemente il suo essere creativo come se fosse la prima volta, proprio perché il suo suggestivo pennello sembra superare le raffigurazioni già dipinte. È con questa consapevolezza che egli esegue il rito della pittura, affinché possa ricominciare sempre con diversa sostanza, pur sempre partendo dai suoi cari ricordi, come l’elemento instabile e straordinariamente dinamico del fluido vivo dell’acqua, ricominciando così sempre daccapo ma in maniera diversa. E non potrà mai accadere che acqua e selva si scindano per il tempo che intercorre nella sua esistenza, poiché entrambi risiedono nel selvaggio giardino di Dúbravský laddove egli, calpestando l’erba bagnata dalla rugiada che scricchiola sotto i suoi passi, vive una violenza affettiva che disorienterebbe chiunque, in cui lui, invece, si trova a suo agio, con Alica e irsuti bruchi nel ricalco della luce lunare.

Maria Vittoria Pinotti

[1] Giorgio Manganelli, Catturare il fantasma, in Emigrazioni oniriche, Adelphi, Milano, 2023, p. 96

[2] Ettore Sottsass, Per qualcuno può essere lo spazio, a cura di Matteo Codignola, Adelphi, 2017, p. 70

[3] Edvard Munch, Frammenti sull’arte, a cura di Marco Alessandrini, Abscondita, 2019, p. 18

[4] Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, 2022, pp. 10-11

Info:

Alica, Andrej Dúbravský
Galleria Richter Fine Art
31/05/2023 – 28/07/2023
Orari: dal lunedì al venerdì dalle 15.00 alle 19.00, o su appuntamento
Vicolo del Curato, 3 00186, Roma


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