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Berlinde De Bruyckere racconta Aletheia

Berlinde De Bruyckere racconta Aletheia

“Aletheia” come “dischiusura” dei paradigmi del vivere, termini di comprensione e ricerca dell’esistenza dell’individuo e della condizione umana. La sofferenza, la trasformazione, la memoria, il sospiro fra vita e morte. Sculture del silenzio, tra violenza, vergogna e sacralità, scavando ricordi e paure ancestrali, uterine, come de-costruiti, i cui elementi prendono forma tramite un dialogo devolvendo in figure insolite, solitarie e fragili, violacee e somatizzanti. Metafore di sofferenza, visioni dell’immaginario archetipico sospese nel limbo dell’indeterminazione, lasciando allo spettatore un senso di vuoto, di disagio, di vulnerabilità e di solitudine.

Fabio Mauri subì trentatré elettroshock in seguito agli avvenimenti atroci della guerra. Essi destabilizzarono ciò che di più semplice nel pensiero interrogativo di un individuo vi può essere: la causa del male. Trascorrendo la vita e la ricerca a interrogarsi sull’origine di esso e sul concetto di trauma, per un’espiazione tramite l’arte, il fare artistico, per scongiurare l’intollerabile, per alleviare e sopportare la natura drammatica, forse tragica, delle cose. La sensibilità degli occhi di chi conserva il loro vissuto, trasformando il dolore in ninfa vitale, quasi necessaria per riconoscersi. I suoi ricordi legati ad un passato sono vividi, sofferenti nella ricerca di vanificare il dolore proprio e collettivo, attraverso un processo intenzionale di riflessione, conoscenza ed esperienza tramite l’esposizione a immagini potenti.

Dunque, Berlinde De Bruyckere (Ghent, 1964) dispone attraverso una mostra monografica a lei dedicata presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, l’ultimo progetto “Aletheia”, con l’impronta decisiva di dirigere un tessuto organico di opere imponenti defluite in un percorso astratto, logico e sensoriale, come una drammaturgia. Racconta le recondite visioni della sua esperienza personale: il padre macellaio, un laboratorio per la lavorazione delle pelli ad Anderlecht, in Belgio. La violenza dello scorticamento, l’atto di accatastare epidermidi (un tempo contenenti vita organica), l’atto percettivo e riflessivo induce a una retrocessione cruda primitiva, in un atto totale di auto-percezione, auto-ritrovamento, auto-rilevazione.

Il Corpo e i suoi elementi, per definizione fisica e concettuale, nel lavoro di Berlinde subiscono una trasformazione: legati a un passato paleoindustriale, a un presente neocapitalistico e a un futuro tecnocratico, il sintomo, l’ossessione, sfociano in una fisicità estetica sinistra, straniante di figure allegoriche, contenenti la somma delle declinazioni storiche di derivazione del concetto di corpo e di ciò che rappresenta: ‘carcere’ per Platone, ‘angoscia’ per Kierkegaard, a causa di un pudore generato dalla carnalità, come uno scoprirsi del singolo ma esposto allo sguardo altrui. Il corpo anamorfico e acefalo, per una sorta di panteismo si ricongiunge all’astratto come un corpo dilatato, deformato, cronenberghiano. Il corpo lucido di Baudrillard, alienato, politicizzato o implicato scambio economico. Ferito, svuotato perde funzione biologica, diviene macabramente scultoreo, implacabile macchina, l’indicibile corpo senz’organi CsO di Artaud. Un corpo infine, in grado di auto-generarsi. Teorema e sistema privo di soluzione.

Per approfondire abbiamo intervistato Berlinde.

“Aletheia”, si mostra come una differente modalità di “svelamento”, secondo un’azione innescata da immagini forti che suscitano seduzione, repulsione o silenzio. Qual è l’intento e la reazione prevista nel sottoporre lo spettatore a immagini che suscitano sensazioni di violenza, reale o astratta?
Credo che tutti questi termini siano applicabili, specialmente considerando l’installazione Aletheia, on-vergeten, 2019. Ci si imbatte in un infinito accumulo di pelli d’animale impilate; un enorme pallet dopo l’altro, uno sopra l’altro, diventa un’immensurabile massa, una paralizzata quantità di morte. Gli strati di sale utilizzati per la conservazione, il sale diluito dai liquidi della pelle, si dissolve come neve sciolta. Gli strati spessi di sale sul pavimento diventano neve, i cumuli di pelli diventano un paesaggio. Entrambe le percezioni possiedono in comune il silenzio. Un silenzio persuaso da un’imponente presenza di un qualcosa che ci fa sentire piccoli. Affrontiamo questo come spettatori con la nostra presenza fisica. Camminando attraverso i pallets, diventiamo parte del paesaggio, parte della tragedia. Non possiamo distanziarci. Mi sembra che l’indifferenza non sia un’opzione possibile qui. In parte, dal sovrastante silenzio, si trovano dettagli, parti di pelle che non sono state coperte dal sale, che rivelano la materialità e la fragilità della soffice cera colorata, che disturbano la quiete del paesaggio all’interno del quale ci immergiamo. Al contempo, credo che la soffice e gentile natura della cera renda la violenza più tollerabile.

La sua ricerca artistica induce a una riflessione sul contemporaneo: come soggetto della tua dimensione figurativa poni al centro un Corpo non convenzionale, come fardello di un’esistenza che viene nullificata, e desacralizzato, come i corpi annegati di profughi. I suoi corpi anamorfici, grotteschi, sono allegorie di un’umanità perduta, svuotata, lacerata e alienata, come risultato di una noncuranza occidentale-capitalista della società? Cos’è il corpo ad oggi, sofferenza, speranza o arma?
La modalità di approccio al corpo, nel mio lavoro, ha sviluppato un’importante questione durante il tempo. Nei primi anni, la presenza del corpo era solo una suggestione. In lavori come V. Eeman, C.Reybrouck and Spreken, il corpo era ridotto a due gambe in cera. Dove avrebbe dovuto esserci il torso, non c’era altro che un mucchio di coperte, che occultavano quello che sembrava essere la silhouette di un corpo/corpi. Coperte pesanti, accumulate, che coprivano tutto tranne le gambe, un’ambigua immagine di come un sovraccarico di protezione e cura possa declinarsi in oppressione e asfissia. Per molti anni la sofferenza umana è stata un motif visibile nelle sculture figurative. Nel 2009 qualcosa è cambiato. Venni introdotta ai ballerini di Les Ballets C de La B, una compagnia di danza di Ghent diretta da Alain Platel. Questo fu l’inizio di una stretta, e di reciproca ispirazione, collaborazione, ugualmente con Alain e i ballerini. Assieme a uno dei ballerini, Romeu Runa, incominciai persino una serie di performance che influenzarono profondamente il mio lavoro.
Queste collaborazioni mi permisero di guardare al mio lavoro diversamente, di percepire il corpo in maniera differente; come un’incarnazione dunque di vita, virilità, passione e desiderio. Ma mai solo questo. Il corpo nel mio lavoro è sempre fragile; persino il corpo più bramoso desidera più di ciò che tollera, più di ciò che può essere soddisfatto. Esiste un lato distruttivo della passione che spesso riferisco alle Metamorfosi di Ovidio, la metamorfosi che parla di un desiderio di conflitto e l’inclinazione del corpo a divenire qualcuno/qualcosa d’altro; un albero, un cervo. Il corpo. che sia tormentato o sensuale è uno strumento appagante, principalmente a causa della sua accessibilità. Ognuno comprende il linguaggio del corpo. Negli ultimi anni però, percepisco che la scala del corpo umano è insufficiente a esprimere il dolore, il dispiacere che dobbiamo affrontare. La desacralizzazione è un giusto modo per descriverla. Nella nuova serie come in Met Tere Huid, Penthesilea, Anderlecht and Aletheia, il corpo diviene più astratto; pelli accatastate, elementi industriali; la massa elimina l’individuo, una perdita di umanità, il corpo muta in paesaggio.

La pelle di questi corpi, apparentemente abbandonata, trasfigurata, alterata, induce a una più profonda condizione: partendo dal concetto anatomico di pelle, come epidermide che contiene ciò che più di sacro è nel corpo, sino a presupposti sociali di differenza: cosa definisce per lei la pelle oggigiorno attraverso la sua ricerca artistica?
La pelle nelle mie sculture è di immensa importanza, che sia cera, coperta o effettiva pelle di cavallo. È ciò che le definisce, una manifestazione del loro desiderio di sedurre, di essere toccate. Nell’accarezzarle con i nostri occhi conferiamo in loro la nostra compassione. È la fascinazione per la pelle che ci permette di avvicinarci alle sculture, sia fisicamente che metaforicamente. La materia della pelle delle sculture definisce inoltre il loro significato. Può sembrare innaturale utilizzare cera per sculture di grande scala ma per me è esattamente l’innaturale utilizzo del materiale che affascina. Nelle mie figure umane, considero sempre la pelle come contenitore dell’anima. La nostra pelle affronta testimone cosa si cela sotto.

Lo spazio e l’olfatto nel suo lavoro, sono implicati per convergere in una fruizione finale e totale dell’esperienza, per immergersi e concentrarsi nell’inquietudine come un rituale di conoscenza di sé. Quanto è influenzato il suo lavoro dalla sfera sensoriale?
Nella mia ricerca visito spesso luoghi segnati da forti e penetranti odori, come la pelle del laboratorio in Anderlecht o il dipartimento di morfologia dell’Università di Medicina Veterinaria, luoghi dove mi reco per il mio lavoro. Ogni volta è una barriera che ho bisogno di rompere ma al contempo vi è una sensazione di accettazione piuttosto che repulsione. Dopo alcuni giorni, non li esperisco più come intrusivi. I nostri sensi si adattano facilmente, persino a forti odori come quello della cera che uso o della pelle trattata dei cavalli. L’odore è parte del processo di creazione, ma non del lavoro stesso. La sua presenza nel lavoro sarebbe troppo demarcata.

Info:

Berlinde De Bruyckere. Aletheia
1 novembre 2019 – 15 marzo 2020
a cura di Irene Calderoni
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
via Modane 16 Torino

Berlinde De Bruyckere, Palindroom, 2019

Berlinde De BruyckereBerlinde De Bruyckere, Aletheia, on-vergeten, 2019

Berlinde De Bruyckere, Aletheia, on-vergeten, 2019

Berlinde De Bruyckere, Nijvel II, 2019 and Nijvel I, 2019

Berlinde De BruyckereBerlinde De Bruyckere, It almost seemed a lily V, 2018

Berlinde De Bruyckere, It almost seemed a lily IV, 2018

For all the images: courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo


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