Discipula

Alessia Locatelli: I Discipula sono tre: MFG Paltrinieri, Mirko Smerdel e Tommaso Tanini. Da che ambito venite e dove vi siete incontrati?
Ci siamo conosciuti verso la fine degli anni ’90 a Firenze, dove eravamo tutti attivi all’interno della scena punk hardcore. Assieme abbiamo formato un gruppo, To The Ansaphone, con cui registrato dischi e suonato tanto, in Italia e all’estero. Tutto questo fino al 2004. Successivamente abbiamo seguito differenti percorsi formativi: Mirko si è laureato in arti visive e studi curatoriali, Tommaso si è formato come fotografo e Marco si è specializzato in psicologia culturale e metodi di ricerca qualitativi.  Le nostre strade si sono ricongiunte nel 2013 e Discipula può essere semplicemente introdotta come la combinazione dei nostri interessi e percorsi di ricerca individuali.

A: Discipula in latino significa Alunno, Scolaro. Di quali maestri?
Premettiamo che il nome Discipula non ha significati e motivazioni particolarmente profonde. E’ una parola che appartiene al nostro passato come band (era il titolo di un brano) e per noi rappresenta semplicemente un segno, un modo per dare continuità a due esperienze tra loro distanti nel tempo ma comunque strettamente connesse tra loro. Di questo nome però ci piace anche una certa ambiguità e mistero che lo caratterizzano e al quale non avevamo pensato al momento della decisione di adottarlo. Insomma non vuol dire praticamente niente e ci diverte molto sentirla pronunciare in modi strani da chi non ci conosce.
Detto questo, direi che che per quanto riguarda la nostra formazione non veniamo da nessuna specifica scuola e non abbiamo avuto maestri che hanno segnato in maniera netta la via del nostro lavoro come collettivo. Ci sono tuttavia delle figure che hanno contribuito magari all’educazione di un singolo e con le quali ancora ci confrontiamo per discutere il lavoro di Discipula. Un esempio è Francesco Jodice, di cui Mirko è stato studente e con il quale abbiamo oggi un bel rapporto di confronto aperto.
Allargando infine la domanda a quelle che sono invece le nostre influenze beh, il discorso si complica non poco. Il nostro lavoro infatti è informato dall’incontro tra linguaggi e pratiche diverse. Per fare alcuni esempi: arte concettuale e avanguardie storiche,  la fantascienza nel cinema di John Carpenter e George A.Romero ed in letteratura con J.G. Ballard e Phillip K. Dick; l’esperienza di architettura e design radicale portata avanti da gente come Archizoom, Superstudio, Haus-Rucker-Co, Ugo la Pietra e Gianni Pettena; la contaminazione tra arte visiva e musica elettronica messa in atto da Throbbing Gristle e affiliati, fino ad arrivare ad artisti più attuali ma sempre “contaminati” come Liam Gillick, Slavs & Tatars, David Maljkovic, Metahaven e Hito Steyerl… Insomma, impossibile fornire una lista esaustiva.

A: La storia delle immagini si lega fortemente al controllo politico. Un esempio su tutti: nel 1916 il presidente T. W. Wilson istituisce una Commissione Governativa per la Propaganda, nota anche come “Commissione Creel”. “Il Committee on Public Information (letteralmente Comitato di informazione pubblica) (…) era un’agenzia indipendente del governo degli Stati Uniti creata con lo scopo di influenzare l’opinionepubblica statunitense a favore dell’intervento nella prima guerra mondiale”. (da: Wikipedia) Con la fine degli anni ‘90 si è detto che l’epoca delle ideologie era morta. Non solo il vostro lavoro oggi crea una traccia per una rilettura di tale affermazione ma anche nella presentazione web dei Discipula, citate: “Le immagini invadono ed espandono il nostro mondo e la nostra percezione di esso e (…) diventano porte per l’ideologia che li crea”. Non vi sembra di essere anacronistici a parlare oggi di ideologie, nell’epoca della fine delle Grandi Narrazioni?
Crediamo che innanzitutto la parola ideologia non abbia di per sé nessuna accezione negativa e soprattutto che non sia possibile sfuggire da una lettura (anche) ideologica della realtà. Detto ciò, pensiamo che le ideologie tradizionali, intese anche e soprattutto come movimenti sociali e culturali, siano state progressivamente sottratte al popolo, alle comunità, a partire dagli anni ’80 in avanti con l’inesorabile ascesa del neoliberismo, con l’espansione di quest’ultimo al punto da diventare “l’unico modello possibile”.
Tale ideologia è oggi talmente onnipresente e pervasiva che i suoi tratti sono quasi del tutto scomparsi dalla nostra vista tanto ne siamo immersi.
Per dirla con le parole di George Monbiot: “Immagina se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare di comunismo. L’ideologia che domina le nostre vite non ha, per la maggior parte di noi, nessun nome. Menzionalo in conversazione e sarai ricompensato con un’alzata di spalle. Anche se i tuoi ascoltatori hanno ascoltato il termine prima, lotteranno per definirlo. Neoliberismo: sai di cosa si tratta?”.
Quello che nel nostro piccolo cerchiamo di fare con Discipula è provare a riportare alla vista, provare a delineare nuovamente i contorni della macroideologia all’interno della quale ci muoviamo. Potendo tracciare i confini di questo regno forse allora può diventare possibile intravederne anche un fuori, un’alternativa. Facciamo questo principalmente attraverso lo studio e l’intervento sulle immagini perché crediamo rappresentino il principale vettore attraverso cui il “potere” proietta e inocula nella popolazione un reale idealizzato in grado di mascherare la voragine del presente. Citando un articolo di Emmelheinz apparso recentemente su e-flux: “il presente in cui viviamo non offre tanto una nuova immagine del mondo quanto piuttosto la trasformazione del mondo in immagini”.

A: Parliamo ora del vostro modus operandi. Discipula si muove all’interno del linguaggio e le tecniche comunicative (pubblicità, rendering 3D, immagini stock) che appartengono alla società dei consumi, ri-appropriandosi del materiale che essa stessa genera, per far emergere significazioni inattese, capaci di dare nuovo spazio d’interpretazione ed uso a quelle modalità espressive assimilate. Vi chiedo, anche come esempio esplicativo, di raccontarci il vostro progetto “outdoor” che ha visto la comparsa di alcuni grandi cartelloni sui tetti di edifici in zone centrali a Milano a dicembre, contenenti frasi che invitavano alla riflessione attraverso il medium della pubblicità.  In che modo secondo voi tali modalità possono essere utilizzate oggi per suggerire il reale stato delle cose, per poter tornare a parlare di un “riappropriarsi” delle scelte che facciamo?

Per quanto riguarda il nostro modus operandi in generale, potremmo dire che ogni nostro progetto rappresenta in un certo senso una sorta di laboratorio dove immagini catturate dal flusso di produzione e consumo quotidiano vengono dissezionate, riprogrammate e messe in dialogo con altri elementi, siano essi testi, suoni o altre immagini con l’obbiettivo di osservarne e registrarne trasformazioni di senso e come da te sottolineato, nuove significazioni. A tal proposito, i nostri progetti potrebbero essere paragonati a delle piccole ecologie all’interno delle quali il pubblico è invitato ad esplorare la natura ambigua ed estremamente complessa del linguaggio visivo così da criticizzarne l’uso che ne viene fatto quotidianamente.
Venendo ad “Outdoor Media Action”, si tratta di un progetto particolare, dove per la prima volta usciamo dal “laboratorio” per operare direttamente all’interno del flusso di produzione e consumo. Il lavoro rientra all’interno di “How Things Dream” progetto in divenire, dove, attraverso la creazione e l’operato di una Tech-corporation immaginaria di nome AURA, immaginiamo le conseguenze del sempre più stretto rapporto tra tecnologia, neoliberismo e nuove forme di controllo. AURA, occupandosi di big data analysis e fornendo servizi essenziali in aree come educazione, salute e sicurezza, è in grado infatti di avere accesso a milioni di dati sensibili e coprire ogni aspetto del quotidiano. Attraverso le campagne e la brand identity della company delineiamo dunque i tratti di un mondo post democratico e corporate-centrico. Le pubblicità apparse sui grandi schermi LED a Milano si riferiscono a questo universo presentando ad un pubblico occasionale il messaggio distorto di AURA a metà tra rigore politico e slancio spirituale. Poter utilizzare gli schemi LED (gentilmente offertici dalla società M4) ci ha dato la possibilità di poter toccare molte più persone di quante mai potremmo sognarci di avere ad una nostra mostra, ma anche di toccarle all’interno di quella dimensione di consumo quotidiano delle immagini, dove la mente lavora in maniera totalmente differente rispetto a quando ci si trova ad esempio in un museo. La speranza di poter mettere un tarlo in testa ad almeno uno dei passanti che si sono imbattuti nel lavoro e la possibilità di confrontarci direttamente con i canali ufficiali di distribuzione delle immagini sono alla base di un progetto come Outdoor Media Action.

 A: Che altro genere di “azioni” e progetti state attuando o avete elaborato per portare avanti la vostra visione di artisti engagés (lo posso dire)?
Può sembrare un paradosso rispetto a quanto detto fino ad ora ma non ci ritroviamo nella definizione di artisti engagés, così come nella nostra pratica non vi è alcuna esplicitazione diretta di un preciso messaggio politico.
Preferiamo operare trasversalmente, creando immaginari e situazioni all’interno delle quali lo spettatore possa trarre autonomamente le proprie conclusioni senza imporre nessuna lettura predefinita.
In questi termini, ad esempio, ci interessa più comprendere e rendere visibili i meccanismi attraverso cui le immagini operano piuttosto che denunciarne direttamente i rischi impliciti. Pensiamo che tale denuncia rappresenterebbe un messaggio preconfezionato di facile assimilazione e capace di vanificare qualsiasi forma di riflessione più profonda.
Partiamo dunque dal presupposto che noi ci occupiamo di immagini e non di attivismo. A noi interessa innanzitutto analizzare e studiare il ruolo delle immagini nella società in cui viviamo, e questo implica necessariamente una lettura che tenga conto di teorie dell’immagine e dei media delle quali ci sentiamo innegabilmente eredi.

A: Alla base concettuale del vostro lavoro c’è un interessante aderenza all’idea di Società Liquida di Zygmunt Bauman riattualizzata in chiave di un “potere liquido”, sovra-nazionale, alla luce dei contributi del filosofo Slavoj Zizek e del sociologo Ulrich Beck. Come riuscite a sintetizzare la complessità della migliore critica contemporanea in un messaggio-progetto che debba riuscire ad arrivare a tutti, per età e ceto sociale? Credete che basti la sintesi di un linguaggio che oltretutto si oggi è svuotato nella sua essenza, a far ripartire i meccanismi celebrali della critica nell’uomo odierno?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo necessariamente partire da una riflessione sul settore in cui operiamo, l’arte contemporanea, un’industria autoreferenziale dominata dalle regole del mercato e dell’entertainment. Questo fa si che molto spesso idee e concetti alla base di un lavoro vengano neutralizzati e ridotti ad un bell’oggetto da sottrarre al mondo ed aggiungere alla propria collezione privata. La duplice domanda che ci poniamo è dunque molto semplice: come sopravvivere in questo sistema cercando al tempo stesso di mantenere condivisibile la nostra ricerca?
Da una parte la possibilità di creare sempre più situazioni come quella messa in atto con “Outdoor Media Action” può aiutare. Dall’altra potremmo chiamare in causa la differenziazione delle pratiche che portiamo avanti sotto il nome Discipula. Oltre alla pura pratica artistica, realizziamo infatti libri che pubblichiamo indipendentemente, organizziamo workshop in collaborazione con istituzioni pubbliche, facciamo lectures e vorremmo espandere ancora la nostra pratica su altri fronti ancora tutti da sperimentare.

A: Per gli artisti oggi l’immagine vive uno stato di perenne svilimento, forse più del linguaggio. Vittima, da un lato, della forte veicolazione dell’immagine pubblicitaria che farcisce di stereotipi i suoi slogan, dall’altro dalla produzione vorace e di “analfabetismo visivo” che si autoalimenta in un continuo bisogno di affermare la propria identità. (cit) Come pensate – in questa situazione attuale – di creare opere che siano davvero efficaci nello spronare i vostri interlocutori/fruitori ad una riflessione concreta?
Analizzando la condizione dell’immagine contemporanea dovrebbe nascere, da parte dell’artista, il desiderio, o meglio l’urgenza, di meglio comprendere e opporre una resistenza allo svilimento di cui tu parli. Un esempio su tutti è lo straordinario lavoro di Hito Steyerl, sia come artista che teorica. Come detto più sopra, il nostro contributo consiste nel cercare di portare il nostro pubblico dentro i meccanismi attraverso cui le immagini funzionano e contribuiscono a creare quel rumore bianco che è la comunicazione (visiva ma non solo). Facciamo questo attraverso strategie che portiamo avanti e affiniamo di progetto in progetto. L’appropriazione, la manipolazione, il dialogo (o conflitto) tra differenti linguaggi, il mescolamento tra realtà e finzione, l’analisi e l’utilizzo di differenti strategie narrative.
Spesso quando parliamo del nostro lavoro portiamo ad esempio il film “Essi Vivono” di John Carpenter, dove attraverso l’uso di speciali occhiali il protagonista riesce a vedere il vero volto di una razza aliena che sta controllando il mondo e i loro messaggi subliminali. Quegli occhiali sono per noi la metafora del lavoro dell’artista che attraverso la sua pratica (non a caso una lente) mostra la realtà in cui siamo immersi sotto una prospettiva nuova, rivelandone problematiche e criticità.

A: Alcuni anni fa Alfredo Jaar attraverso l’opera “Cold storage” portò all’attenzione del pubblico la pericolosa perdita della memoria fotografica storica lasciandola – per mere questioni economiche – nelle mani del privato, in questo caso di Corbis, ovvero Bill Gates. Si parla di più di 80milioni di immagini e archivi resi inaccessibili all’interno di una montagna di ferro negli Stati Uniti. Cosa pensate degli archivi (di fotografie e supporti vari) e della difficoltà di preservarli dal punto di vista fisico e dai tempi e costi della digitalizzazione?
Con l’età moderna il potere di conservare la memoria è stato storicamente affidato agli Stati: i musei e gli archivi nascono e si diffondono con la rivoluzione industriale, ed è lo Stato che decide cosa deve essere conservato e cosa deve essere di libero accesso e come.
Ma in questi ultimi anni stiamo registrando un fenomeno nuovo e per certi versi inquietante: la raccolta dati, archiviazione (e riutilizzo) di dati personali da parte di grandi aziende multinazionali. In altre parole, stiamo parlando della proprietà della memoria collettiva.
Questa è a mio parere una questione importante tanto quanto se non più di altre problematiche riguardanti la raccolta, il monitoraggio e la vendita di dati personali a scopi commercial (Big Data).
Ovviamente ciò che queste aziende fanno con i nostri dati è cruciale, così come il fatto che siano completamente libere da qualsiasi controllo, ma ancora più rilevante è il fatto che delle entità private ed a noi sostanzialmente estranee abbiano il potere di preservare la nostra memoria collettiva, e pertanto di (ri)scrivere la Storia.
In altre parole se fino ad oggi, in maniera più o meno democratica, gli stati si proponevano di salvaguardare la memoria e la storia dei territori e dei loro abitanti, in futuro questo compito potrebbe essere affidato a delle corporation.
La memoria (non solo fotografica) si sta quindi separando dal supporto fisico (libro – disco – stampa – hard disc) per diventare qualcosa di liquido, di cui non siamo più proprietari e che non possiamo controllare.
In questo scenario non basta più semplicemente saper leggere le immagini per poterne riconoscere il loro messaggio ideologico intrinseco, ma occorre difendere il valore pubblico e universale di quelle immagini e quei dati che conservano la nostra memoria privata e collettiva.

A: Come definite e come vi ponete nei confronti della proprietà intellettuale? E’ inevitabile o si può immaginare un sistema che non la contempli?
Crediamo che tutto ciò che abbia un valore culturale debba essere condiviso e condivisibile da tutti e siamo sostenitori dell’open source e di creative commons. Purtroppo al momento sembra che la società si sta muovendo in direzione opposta.
Si sta avverando un fenomeno distopico che rappresenta simbolicamente (ma neanche tanto) l’esatto contrario dell’utopia socialista marxista: il socialismo prevede l’abolizione della grande proprietà borghese in difesa dell’interesse della collettività col fine di garantire a tutti pari dignità e opportunità: un lavoro, una casa, istruzione, sanità per tutti.
Il neoliberismo (lo chiamiamo così per comodità) prevede l’abolizione dello stato sociale e della microproprietà individuale per difendere il monopolio di megaproprietà multinazionali, corporative e astratte. Il tutto in nome di una tecnologia capace di gestire la società in maniera solo apparentemente neutrale.
Attraverso un perverso meccanismo che ci fa credere di acquisire nuove forme di partecipazione, nuove libertà e indipendenza, ci stiamo ritrovando a non possedere più una casa (Air-Bnb le possederà per noi), a non avere più un’ informazione indipendente (perché tutto dovrà corrispondere alla censura del gradimento, dei “like”), non possederemo più danaro (sostituito da BitCoin), non possederemo più degli hard disc o altri devices per la raccolta dei nostri dati, poiché  le nostre memorie e i nostri ricordi saranno su delle “nuvole” (Cloud storage) e così via…Facendo sì che le nostre vite possono essere permanentemente monitorate, verificate, capitalizzate.

A: Come critico e curatore, sostengo che oggi l’arte debba utilizzare modalità capaci di avvicinare  nuovamente gli individui alla “cultura della visione” e, ancora meglio, che sia uno strumento efficace per riattivare il loro senso critico. Artisti più giovani sono maggiormente capaci di “intervenire” modificando o rileggendo le stesse tecnologie e sovrastrutture che ci pervadono nel quotidiano. C’è dunque secondo voi un solco generazionale che si viene a creare naturalmente?
Non siamo così sicuri a tal riguardo. Certamente le nuove generazioni di artisti nati e cresciuti nell’era di internet hanno una sensibilità e una capacità di inserirsi nel cuore del discorso che altre generazioni possono sognarsi, il rischio però è quello di venire assorbiti dalla stessa liquidità dei modelli comunicativi adottati vanificando parte delle loro operazioni. Chi invece ha conosciuto ed operato in un “prima” e quindi ha potuto osservare l’accelerazione attraverso cui il presente sta mutando, potrà forse avere minor confidenza con certi linguaggi e pratiche dominanti ma avrà maggiore lucidità nel vedere lo stato delle cose e questo può materializzarsi attraverso lavori più solidi e duraturi. Un esempio che ci viene in mente a tal riguardo è Alfredo Jaar. Insomma credo che si tratti di una questione di punti di vista e posizionamento storico: interno vs esterno rispetto al presente odierno. Per quanto ci riguarda, prendendo l’esplosione di internet ad inizio 2000 come spartiacque, siamo felici e fortunati di aver visto e vissuto un “prima” e di esserci formati in un “dopo”. Crediamo abbia una certa ripercussione sul nostro modo di lavorare.

A: Credete che oggi sia impossibile – e magari inutile – essere originali ed inediti in ambito artistico?
Crediamo sia una questione tutto sommato relativa. Essere originali è difficile ma non dovrebbe essere né un’ossessione né un obbiettivo fine a se stesso. Piuttosto, dovrebbe essere il risultato del proprio percorso di ricerca inteso come il raggiungimento di un certo grado di confidenza nell’utilizzare gli strumenti e i linguaggi con cui un artista decide di operare.
Noi lavoriamo cercando di far dialogare suggestioni ed ispirazioni spesso molto distanti tra loro e vedere cosa accade. Questo approccio a volte funziona meglio e a volte funziona peggio. Ma nel processo di creazione di questi “collages culturali” esiste una componente ludica che per noi è non solo molto stimolante ma anche essenziale nel nostro percorso di crescita. Tutto questo avviene al di fuori di qualsiasi ansia da prestazione, è piuttosto qualcosa di organico e progressivo. Inoltre spesso ci piace anche citare, richiamare o omaggiare altri artisti o stili. In conclusione, per noi la cosa più importante è sentirsi a proprio agio nelle modalità e nelle forme attraverso cui cerchiamo di veicolare le nostre idee. Questo conta.

A: Che valore date all’estetica nei vostri lavori?
Certamente molto alto. L’estetica, rappresenta non solo il primo impatto ma anche la porta d’accesso al nostro mondo ed il mezzo attraverso cui comunicare le nostre idee.

A: Azioni di grande portata, spazi pubblicitari in affitto sui tetti delle città, mezzi di trasporto con le vostre advertising… Come avete affrontato le spese legate a un tipo di produzione così impattante sul budget nella vostra esperienza?
Tutto questo apparente sfarzo si riduce ad un singolo progetto, “Outdoor Media Action”, ed è possibile solo grazie alla grande comprensione, apertura mentale e supporto dell’agenzia M4 che ci ha permesso di utilizzare i loro impianti LED e di Simone Sacchi che ha fatto da tramite e reso possibile l’operazione, per il resto ci siamo completamente autofinanziati.
Quello che sta succedendo nel nostro lavoro e soprattutto in progetti come questo, è un movimento in due direzioni parallele: una di arte pubblica con aspetti relazionali e performativi, l’altra più tradizionalmente legata alla produzione di manufatti artistici, prodotti con l’aiuto della galleria MLZ Art Dep, che servono a lasciare delle tracce del nostro lavoro, a documentarlo, e naturalmente anche a finanziarlo con le vendite.

A: Aura è uno degli ultimi OnGoing Project, alla presentazione al Base di Milano sembrava di assistere  alla nascita di una immaginifica Corporate tecnologica che fornisce servizi essenziali in aree come domotica, sanità, sicurezza, istruzione e gestione. Cito la vostra definizione: “Un non lontano futuro un mondo post-democratico caratterizzato dall’imposizione di un regime globale incentrato sulle imprese; in cui la sorveglianza ed il controllo saranno pienamente accettati e integrati nella mercificazione della vita quotidiana”.  Aura si svilupperà in varie fasi – proprio come accade la presentazione sul mercato di un’azienda transnazionale. Volete raccontarcelo anche a seguito della presentazione al Base|Milano, a fine 2017? Come si inserisce Aura all’interno del progetto How Things Dream?
AURA, è il personaggio principale di “How Things Dream”, un progetto che come detto in precedenza, stiamo portando avanti e facendo crescere attraverso due percorsi: uno più tradizionalmente legato alla pratica artistica, fatto di mostre in gallerie e istituzioni, e uno invece di mescolamento con il mondo esterno iniziato un anno fa inserendo pubblicità di AURA all’interno di magazine d’arte.
E’ in questo secondo percorso che “Outdoor Media Action” ed “Endorsement”, la presentazione di Base a cui ti riferisci, si inseriscono. Per quanto concerne quest’ultimo evento, si tratta di un live multimedia pensato e realizzato assieme al musicista elettronico Nicola Ratti. Quella con Nicola è una collaborazione nata in modo spontaneo, in seguito all’interesse verso i rispettivi lavori e che ci auguriamo possa crescere negli anni. Nello specifico, Endorsement immagina e presenta l’invasione di AURA all’interno di una sottocultura come quella della musica sperimentale. Parliamo d’invasione perché immaginiamo e rappresentiamo qui AURA come uno sponsor talmente invasivo che arriva a coprire il musicista stesso non solo con messaggi vocali durante la sua performance ma anche fisicamente, visto che abbiamo deciso di nascondere letteralmente Nicola all’interno di una sorta di monolite brandizzato.

A: Ci dite infine dove possiamo seguirvi per conoscere i vostri futuri interventi e che gallerie vi seguono in Italia?
Ci trovate sui soliti canali, Facebook (@discipuladiscipula) e Instagram (@discipula_collective) oltre che sul nostro sito www.discipula.com. Al momento in Italia stiamo principalmente lavorando con MLZ Art Dep, galleria di Trieste.

Alessia Locatelli


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