MATARES. Un film di Rachid Benhadj

MATARES è un film del 2019, di 90 minuti, scritto e diretto da Rachid Benhadj, interpretato da Dorian Yohoo (Mona), Anis Salhi (Said), Hacene Kerkache (Djaffar), Kobe Alix Hermann (Cedric), Rebecca Yohoo (madre di Mona). È prodotto da Nour Film (Algeria) e Laser Film (Italia), distribuito da 30 Holding, con colonna sonora di Said Bouchelouche, voce cantata di Tetty Tezano e direzione della fotografia di Karim Benhadj.  Mona è una bambina ivoriana di 8 anni, fuggita dal suo paese di origine per stabilirsi insieme alla madre a Tipasa, città costiera algerina fondata dai Fenici, successivamente conquistata dai Romani, di cui sopravvivono le suggestive rovine cimiteriali “Matares”. Mona è costretta dal contrabbandiere Cedric a vendere fiori ai turisti per racimolare il denaro necessario alla traversata del Mediterraneo così da riabbracciare il padre che vive in Italia. Nella medesima zona, un bambino algerino di 10 anni, di nome Said e alle dipendenze di Djaffar, vende fiori ai turisti. La collisione tra i due è inevitabile, anche se l’iniziale scontro si trasforma ben presto in un tenero incontro, dove il sentimento puro di amicizia trionfa sulle questioni affaristiche, le differenti matrici religiose – cattolica lei e musulmano lui – e razziali. Mona si esprime attraverso monologhi, dialoghi, pensieri, e il racconto di Adamo della Genesi dell’Antico Testamento  apre la narrazione filmica.

Il primo essere umano caduto nella storia a causa del peccato originale era in realtà un africano di pelle nera che, nella tragedia della mondanità fatta di fatica e dolore «… non capiva perché la gente lo chiamasse sporco negro e perché odiasse la sua pelle nera. Aveva una gran voglia di gridare a tutti che i primi uomini erano neri come lui, ma per evitare altri problemi, preferiva tenere per sé questa verità. Per non capire gli insulti che gli urlavano, Adamo si rifiutò di imparare altre lingue. Ad ogni modo anche quando era obbligato a parlare la lingua del posto, nessuno lo ascoltava. Più il tempo passava, più si sentiva triste e solo». Ed è una pelle nera che con lo sviluppo secolare dell’umanità diviene bianca, avviene una sorta di sbiadimento dei connotati essenziali dell’essere umano in linea con la progressiva trasparenza della società contemporanea, in preda alle nuove tecnologie, alla lucida follia del “like/don’t like” in cui è bandita ogni opacità, e in cui il colore cessa di esistere, anche nella memoria, innescando antinomie razziali incomprensibili, in quanto la fissazione di ogni desiderio nelle cose e nell’appagamento degli effimeri bisogni terreni non primari diventa il timone di ogni azione umana, un raggiro che scolora tutto, anche la pelle, e soprattutto la memoria della comune origine ancestrale.

Benhadj affronta la questione razziale in termini assolutamente originali: non occorre solo accettare l’altro che ha una differente pigmentazione della pelle sulla base di considerazioni socio-antropologiche votate alla pace tra i popoli e alla pacifica convivenza sul pianeta, ma occorre riconoscerlo come fratello, come essere umano tassello del mosaico dell’umanità, la quale ha una medesima origine e un eguale destino, con un’alfa e un’omega sancite dal tempo in cui l’uomo è piombato a causa del peccato originale e con un quid che è esterno a ogni dimensione spaziale e temporale la cui eternità si realizza solo con l’adesione incondizionata al Trascendente. Tale adesione è scelta dall’uomo in ogni sua azione, in ogni momento della sua esistenza decidendo di accorgersi o meno delle differenze razziali, così come di ogni altra differenza, che alla fine esistono solo nel suo immaginario figlio delle fuorvianti esperienze sensibili, nel tunnel degli ammiccamenti mondani che troppo spesso non riesce a identificare.

Altro tema trattato è il dialogo interreligioso, Mona è cattolica e Said è musulmano, lei parla con Gesù, lui è identificato solo dall’etnia, dalla ricostruzione narrativa, non compie alcuna ritualità, è elemento di un sistema socio-culturale che lo identifica come tale, si realizza una sorta di metonimia che prende a base luoghi, discorsi, oggetti, un libro sul Corano consegnato a lei da Cedric affinché venda meglio, facendo emergere il  Credo del bambino algerino a contrariis, dall’intima violenza fatta a lei. D’altronde la dichiarazione Nostra aetate (1965) del Concilio Vaticano II parla chiaro. All’origine del dialogo tra le religioni c’è il dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, perché i vari popoli costituiscono una sola comunità, avendo una stessa origine e come fine ultimo Dio. La Chiesa Cattolica « considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini », guarda « con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno ». Un seme, questo, della Dottrina Cattolica che diventa foriero di altre non meno importanti “rivelazioni”, tra cui l’enciclica Redemptor hominis (1979) di Giovanni Paolo II in cui il grande Santo afferma che lo Spirito di verità opera in ogni ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane (cf. n. 6) e che lo Spirito soffia dove vuole (cf. n. 12).

Benhadj unisce nella storia Mona e Said con un amore fraterno che emerge spontaneo e che si scrolla di dosso velocemente tutti i pregiudizi terreni quali il colore della pelle, la Fede religiosa, la provenienza etnico-geografica, il genere sessuale, etc., confermando le parole del grande Papa sulla scia dell’evangelista Giovanni « Lo Spirito come il vento, soffia dove vuole » (Gv. 3, 8), sancendo, quindi, il necessario abbandono alla chiamata divina hic et nunc affinché l’uomo trovi la strada della Verità. Nel film c’è qualche colpo di scena, solo accennato da Benhadj, che non contraddice mai il suo stile fatto di sguardi discreti, di scenari naturalistici meravigliosi, di bellezza umana indagata con pudore, con “timore e tremore”, utilizzando le parole del filosofo danese Søren Kierkegaard. Said ruba i soldi di Djaffar, che lo punisce, Mona pugnala Djaffar per difendere Said dall’aggressione violenta, i bambini algerini cacciano Mona dandole della “sporca negra”, Mona, assoldata da Djaffar, è indotta a un incontro di prostituzione. Tuttavia queste miserie umane non inficiano la bontà del film, in quanto la spiritualità e l’intimità emozionale che guidano la narrazione filmica non diminuiscono mai, e in ciò gioca un ruolo fondamentale la magnifica fotografia di Karim Benhadj, figlio del regista, che recepisce bene gli insegnamenti di Vittorio Storaro, di cui è allievo virtuoso. Al termine della visione lo spettatore dimentica quasi la questione degli immigrati clandestini, probabilmente ha voglia di abbracciare teneramente un membro della sua famiglia o un caro amico, in quanto il film accende la voglia di amare il prossimo e il mondo, unica modalità per abbattere divisioni e tristezze umane.

MATARES verrà proiettato on line in mondovisione il prossimo 15 giugno 2020.

Info:

www.e-cinema.it

MATARES, still frame, Mona guarda Said

MATARES, still frame, Mona e Said

MATARES, still frame, Mona e Said alla stele Camus

MATARES, still frame, Said

MATARES, still frame, Mona

MATARES, still frame, Mona e Said

MATARES, 2019, un film di Rachid Benhadj


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