Sebastiano Sofia. Ariel

La poetica di molti artisti contemporanei trova la sua principale fonte d’ispirazione nelle sorprendenti analogie tra le metamorfosi della materia artificiale e le naturali trasformazioni delle sostanze organiche mentre la costante oscillazione tra l’universo biologico e quello sintetico, forse il più rilevante prodotto tecnologico e intellettuale della nostra epoca, è diventata un consolidato modello di processo creativo anche nel campo delle arti visive. A partire dagli anni ’90, quando Matthew Barney nel ciclo Cremaster celebrava l’inconscio della cultura americana in un trionfo di gelatina e vaselina con una spettacolare epopea del desiderio e della sessualità, le schiume poliuretaniche, il lattice, le resine e ogni altra emulsione postmoderna si sono imposte come imprescindibili strumenti artistici inducendo nuovi canoni estetici e inedite modalità di realizzazione dell’opera. Questi materiali malleabili ed espandibili quando solidificano creano forme resistenti che sembrano cristallizzare una condizione temporanea dell’essere esplicitando al tempo stesso la sua vocazione all’indeterminazione e le delicate strutture che compongono ingannano lo sguardo e il tatto con misteriose allusioni biologiche. I nuovi media, veicoli di una pratica artistica che si allea con la chimica e con la produzione industriale, acquisiscono sempre più autonomia nella genesi dell’opera e diventano inquietante metafora dell’imprevedibilità delle più sofisticate sperimentazioni genetiche e tecnologiche che l’uomo innesca senza essere in grado di controllarne appieno gli esiti e le conseguenze a lungo termine.

A queste suggestioni si riallaccia anche il lavoro del giovane artista veneto Sebastiano Sofia che manifesta le potenzialità espressive e allusive della materia scultorea intesa come teatro di una continua trasformazione in cui si realizza una vasta gamma di possibilità di ibridazione e complementarità tra artificio e natura. Le sue opere accorpano elementi naturali allo stato grezzo (rami o pietre minerali) o modificati dall’intervento dell’uomo e dall’usura (travi lignee da costruzione o frammenti di vetro arrotondati dalla permanenza in mare), sostanze sintetiche (cemento, resina e gesso) e oggetti di scarto (camere d’aria, aste d’acciaio o frammenti di plastica).  Ogni composizione si presenta come se fosse il risultato provvisorio di un processo di osmosi ancora in atto in cui l’artista riveste il duplice ruolo di  tramite tra mondi inizialmente separati e di testimone del risultato della loro collisione/fusione. Gli elementi scultorei derivati da questi incontri impropri sembrano infatti progressivamente perdere la loro identità oggettuale per trasformarsi in strane creature che si muovono e respirano in uno spazio-tempo differente dal nostro ma altrettanto vitale. La loro esibita lentezza mette in dubbio la supposta immobilità dell’oggetto inanimato per evocare uno stato embrionale dell’essere in cui suggestioni organiche reali e finzionali si mescolano nella medesima sospensione emotiva. Diventano labili i parametri di qualificazione delle cose e le più comuni coppie oppositive si confondono l’una nell’altra: se il gesso e lo stucco rivestono la sommità di una trave di legno con lussureggianti fioriture non si è più sicuri dell’obiettività di concetti consolidati come rigidità, mollezza, fragilità, resistenza, pienezza o cavità. Se il lattice imita la texture squamosa di un essere incerto tra il rettile e la sirena e i suoi colori sgargianti fanno pensare alla verniciatura industriale o all’iridescenza di qualche pesce mitologico, le pieghe carnose in cui dispiega la propria esistenza solitaria potrebbero essere le protuberanze di una pianta tropicale come l’ultimo sussulto esistenziale di una pelle appena conciata.

In queste alchimie materiche nessun corpo è inerte come forse non lo è nemmeno la più intima struttura molecolare dei suoi elementi costitutivi considerati singolarmente e il desiderio sprigionato dal loro amplesso diviene metafora della ricerca della platonica completezza che da sempre è una delle più coinvolgenti ragioni della creazione artistica. Sofia dichiara la matrice mitologica e psicanalitica della sua creativa ingegneria genetica nei titoli di alcune opere come La Sindrome di Salmace e Ariel che, rievocando la fonte letteraria di riferimento, ne fanno trapelare anche il doloroso anelito ad un impossibile stato di quiete.

La stessa tensione si rileva nel rapporto che le sculture intrattengono con lo spazio che le circonda: oblique, scivolose, acquattate, mimetiche, talvolta colpevolmente sgargianti si reggono tramite strutture vulnerabili che sembrano prefigurarne l’imminente collasso e le successive aggregazioni e lacerazioni che deriverebbero dalla loro traumatica scomposizione. In sintonia con l’instabilità forzata delle sculture di Paolo Icaro e con l’improduttività dei macchinari onanistici di Arcangelo Sassolino, le creature di Sofia sono animate da un’imperturbabile tenacia che le aggrappa al muro o al pavimento con lo stesso fatalismo di una ferita insanabile. La loro installazione d’insieme inoltre evoca la pervasiva ubiquità dell’artificio nel paesaggio contemporaneo e richiama alla mente l’inestricabile intreccio di natura e detriti umani che caratterizza anche i luoghi  più selvaggi e disabitati di un mondo saturato dagli effetti della produzione di massa. Senza alcuna retorica, Sofia sembra prendere atto dell’ambiguità del presente e portarne alle estreme conseguenze le intrinseche contraddizioni per esaltare l’adulterata bellezza della nostra epoca e provare a immaginare le sue future trasmutazioni in una visionaria transustanziazione artistica.

Sebastiano Sofia. Ariel
24 settembre – 5 novembre 2016
CAR DRDE
Via Azzo Gardino 14/a, Bologna

Sebastiano Sofia, “Senza titolo (24.9)”, 2016, lattice, vernice, vetro, courtesy CAR DRDE, Bologna

Sebastiano Sofia, “1986”, 2016, cemento, pigmento, courtesy CAR DRDE, Bologna

Sebastiano Sofia, “Noi #1”, 2015, gesso, stucco, legno, ferro, vernice, courtesy CAR DRDE, Bologna

Sebastiano Sofia, “Caterpillar”, 2016, legno, cemento, acciaio, vernice, courtesy CAR DRDE, Bologna


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