Vincenzo Estremo. Be water my friend

Se dovessi racchiudere la personalità e l’attività di Vincenzo Estremo in una parola, userei “poliedricità”: è docente di curatela e fenomenologia dell’immagine presso la NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano, ha collaborato con diverse istituzioni museali come il Van Abbenmuseum (Eindhoven), co-dirige una collana editoriale, scrive regolarmente su Flash Art Italia e ha pubblicato diversi libri, tra cui l’ultimo, fresco di stampa che si intitola Teoria del Lavoro Reputazionale. Consegna con questo scritto un’analisi severa, ma propone vie d’uscita percorribili e spunti per un agire diverso nel contemporaneo.

Lucrezia Costa: La tua ricerca è fortemente incentrata sullo studio dell’immagine in movimento. Come è nata l’idea di proporre una teoria sul lavoro reputazionale?
Vincenzo Estremo: In realtà il lavoro e la ricerca sulle immagini in movimento sono parte del lavoro reputazionale in quanto uno è la precondizione per l’altro. In questo libro ho provato a raccontare in che modo oggi la ricerca e il lavoro artistici debbano convivere con altre forme di legittimazione. Nel corso della mia carriera, ho riflettuto spesso su come riuscire a mantenere questa attività: se studiare la funzione politica dell’immagine in movimento è una vocazione, una passione, un campo di interesse, garantirsi la possibilità di poterlo fare afferisce a un altro ambito, e ho pensato di scrivere questo testo meta-teorico in cui indagare le dinamiche che stanno alla base della pratica del lavoro artistico.

Come definiresti il “lavoro reputazionale”? E qual è il legame che si instaura con l’immagine in movimento?
Diciamo subito che l’immagine in movimento è diventato uno strumento che permette di amplificare la portata della propria immagine e che quindi permette lo sviluppo e l’affermazione di forme reputazionali di lavoro. Nel libro parlo della trasformazione del video e di come negli anni quello che Fredric Jameson definiva il medium del postmoderno, abbia continuato a evolversi sino ad arrivare a funzionare in nemesi ad alcuni dei suoi compiti iniziali. Le mie ricerche sono sempre confluite sulla funzione tattica e politica del video, ma con la conversione dei social network da piattaforme testuali a hub di condivisione video qualcosa è cambiato. Statisticamente il video è diventato lo strumento più appetitoso per la promozione mediatica e questa funzione egemonica dell’immagine in movimento ha lasciato tracce sulle esperienze socio-materiali. Il lavoro reputazionale è la frontiera attuale del lavoro cognitivo, un’attività in cui le filiere produttive ruotano intorno a una narrazione auto-imprenditoriale. Questo meccanismo facilita meccanismi di deregolamentazione del lavoro stesso, non solo quello artistico ma tutto il lavoro culturale e per estensione quello cognitivo. La sostanziale iniquità ed esclusività di questo settore produce domini ideologici che ho voluto collocare nell’ambito dell’arte.

Nel libro citi l’opera The Working Life (2013) del gruppo Superflex, che definisci come “una forma di lotta radicale che insegna a stare in pace con il nostro fare niente”. Il Covid-19 poteva innescare due meccanismi opposti: il raggiungimento dell’apice dello sfruttamento attraverso lo smart-working, oppure un collettivo nuovo far niente. Secondo te quale delle due strade ha avuto la meglio? E perché?
Nel 2014 il lavoro dei Superflex era il centro nevralgico della mostra curata da Vanessa Joan Müller e Cristina Ricupero New Ways of Doing Nothing alla Kunsthalle di Vienna. In quel caso, così come nel mio libro, The Working Life (2013) rappresenta un anello di congiunzione tra gli esempi storici degli anni ‘60 e ‘70 in cui l’arte rifiuta costantemente le richieste delle istituzioni e del mercato e la prospettiva contemporanea in cui il “non fare nulla” sviluppa il proprio potenziale rispetto alle richieste e alle impostazioni di una società concentrata principalmente sull’attività e sulla produttività. Con la pandemia ci siamo accorti della necessità al diritto della disconnessione, oppure del fatto che le nostre architetture domestiche sono delle macchine produttive in cui siamo intrappolati. Se non credo che in un multiverso liberale come quello in cui viviamo siano possibili scelte binarie, perché l’opposto di “sfruttamento” non è “far nulla”, credo invece che questa condizione eccezionale abbia riportato alla luce il ricatto del lavoro. Un vecchio giochino biopolitico in cui le crisi dettano i tempi e i modi produttivi con l’obiettivo di erodere l’ambito di manovra dei lavoratori. Il Covid-19 ha mostrato, e non ce ne era bisogno, l’iniquità di un sistema produttivo e di vita che silenziosamente ci chiede di scegliere tra salute e lavoro, tra possibilità di continuare a fare il proprio mestiere e diritto alla salute.

In un passaggio utilizzi il mito di Narciso per parlare dell’autorappresentazione e del narcisismo che aumentano esponenzialmente con piattaforme digitali come YouTube, il cui slogan è broadcast yourself per l’appunto. Dall’altra parte spieghi che questi fenomeni di comunicazione video differiscono dalla fotografia e dal cinema: in che modo? Cosa cambia effettivamente tra una fotografia che ritrae il suo autore e un video caricato su YouTube?
Diciamo che è una questione di innovative disruption, ovvero a esteriorità simili (autoscatto/selfie) corrispondono effetti diversi. Questa nuova fenomenologia dei media ha di conseguenza un impatto differente rispetto a quelli precedenti a partire dalle mutate condizioni produttive, tanto per riagganciarsi a quanto abbiamo detto in precedenza. Nel mito greco, il povero Narciso precipita nel lago in cui si specchia finendo per morire annegato. Il nostro protagonista viene punito a causa della sua stessa crudeltà. La lezione del Narciso mitologico racconta di un potere inibitivo, punitivo, che intende rendere docile il corpo che rifiuta la condizione sociale in cui è immerso. La differenza con il Narciso youtuber sta nella permissività del potere che sottende a questo secondo modello. Il nostro Narciso non è cosciente della propria sottomissione nemmeno quando precipita nel vortice dell’alienazione del binge-watching, anzi il dispositivo cinematografico che governa Narciso incoraggia quella sovraesposizione tenendo nascosta la relazione di dominio e lasciando al povero prosumer l’illusione della libertà. Questo ovviamente non implica che il potere disciplinare sia scomparso, ma vuol dire che la seduttività dell’immagine mediatica si esprime su altri livelli e con altri modelli di controllo.

Scrivi che i media non muoiono mai in modo dichiarato e netto ma confluiscono tra loro sfumando le differenze tra media popolari e corporativi. Quali sono le differenze sostanziali tra queste due forme di comunicazione? E in che modo questa nuova omogeneità trascina le singole soggettività in un’intelligenza collettiva ed efficiente?
Mi riaggancio alla domanda precedente perché voglio portare come esempio proprio YouTube. La nascita di YouTube non è una novità a livello mediale, ma è innovativo da un punto di vista di connettività. I social media, quindi non solo YouTube, non rappresentano un’evoluzione mediale, ma una cassa di risonanza e di convergenza dei messaggi. Una tipicità dei social è l’azione di ripescare tra i media precedenti: foto, video, audio per riconvertirne le funzioni e amplificarne gli effetti e le conseguenze. Richard Grusin ha definito questo fenomeno parlando dei processi di ipermediazione e immediatezza, ovvero all’aumentare della simultaneità e della quantità delle informazioni mediatiche aumenta anche la possibilità di vita, o rinascita, di vecchie forme di comunicazione. Ovviamente in questa ipertrofia la ridondanza è scontata, ma la pluralità un po’ meno. L’efficienza è una caratteristica quantitativa e non qualitativa di questa tipologia di medialità.

Citi una frase di Gilbert Lauscault in relazione alla definizione di estetica contemporanea: “Nello sfumato, nello sfilacciato, nel disperso, nell’impuro, negli abbozzi di descrizioni di particolarità che si rifiutano di venire generalizzate”. Quanto è sottile il confine tra una concezione davvero nomade che si sottrae alle molte forme di repressione e l’ennesima moda che inneggia alla molteplicità del reale con scopi meramente commerciali?
Credo che il mercato dell’arte sia allo stato delle cose, un elemento da un lato necessario ma contemporaneamente appartenente a un’età passata della produzione artistica. Negli ultimi anni il sistema dell’arte con i suoi modelli adattivi e mutanti ha come prodotto uno svuotamento di senso del mercato stesso, ma alla fine ci si aggrappa di continuo. I confini di sistema in cui non ci si può più misurare su risultati appurabili sono pressoché inesistenti, spesso però questa libertà non è un vantaggio ma solo una grande teoria dell’indefinito. L’arte vive negli ultimi anni una forma di alienazione dal frutto del proprio lavoro, questa alienazione coinvolge tutti gli agenti del sistema dell’arte. Il mercato prova ad arginare questo senso di insoddisfazione e di incompletezza proponendo cifre e trend che però hanno più a che fare con le stagioni che con le rappresentazioni. Queste forme di alienazione post-fordista sono vive proprio perché si relazionano al passato. Io mi auguro che i lavori d’arte possano diventare sempre più dei luoghi di dialettica, magari delle isole di critica alla dimensione digitale e se poi avranno anche scopi commerciali, beh in quel caso sarebbe un male minore.

Vorrei concludere l’intervista con la frase di Bruce Lee “Be water my friend”, che si riferisce alla necessità di ritrovare la propria natura fluida. Come può agire un artista a tuo avviso, per smuovere la sua e l’altrui fluidità?
Bruce Lee oggi avrebbe un canale YouTube con molti like, oppure farebbe video lezioni di mindfulness su Instagram con reel accattivanti con tanto di sfondi tropicali, e magari The Cool Couple potrebbero collaborarci. Ma scherzi a parte, quando parlavo di liquidità intendevo soprattutto quella condizione adattiva che caratterizza gran parte del lavoro reputazionale e artistico, qualcosa che andrebbe arginato. Forse è giunto il momento, almeno da un punto di vista politico, di essere solidi. Liquidi nelle nostre idee, adattivi nei nostri orientamenti, ma solidi politicamente, perché l’arte non può permettersi il lusso di sentirsi fuori dalla condizione che pretende di raccontare.

Lucrezia Costa

Vincenzo EstremoVincenzo Estremo, docente di curatela e fenomenologia dell’immagine presso la NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano

Ed Atkins, Safe Conduct, 2016. Courtesy the Artist & Galerie Isabella Bortolozzi, Berlino

Giardina Papa, Technologies of Care, 2016

Superflex, The Working Life, 2013, still da video

Ian Cheng, Artificial Life Form, 2018/2019, courtesy La Biennale di Venezia

Cover del libro appena pubblicato “Teoria del lavoro reputazionale” di Vincenzo Estremo (2021) per Frontiere editore. Courtesy Casa editrice Milieu Edizioni

Dettaglio della mostra “New ways of doing nothing” curata da Vanessa Joan Müller e Cristina Ricupero alla Kunsthalle di Vienna (2014). Courtesy Kunsthalle Wien

The Cool Couple per il progetto CareOf Edizione 2019. Courtesy CareOf in collaborazione con SkyArte


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